“A new Washington consensus”: con questa roboante espressione Martin Sandbu ha commentato sul Financial Times la rinnovata sintonia fra Fondo monetario internazionale (Fmi), Banca mondiale (Bm) e governo degli Stati Uniti (o più precisamente il Dipartimento del Tesoro) sulle politiche economiche e fiscali da adottare per l’era post-pandemia. Il “Washington consensus” è la definizione data a quella tendenza delle tre istituzioni “vicine di casa”, negli anni della globalizzazione, a viaggiare di conserva applicando in modo alquanto rigido a gran parte del mondo le ricette neoliberiste: privatizzazioni, liberalizzazioni, arretramento dello Stato, moderazione fiscale. La notizia è che torna in auge il “big government” dichiarato finito da Ronald Reagan, all’epoca dei suoi drastici tagli di tasse che hanno avviato la stagione del boom delle diseguaglianze. Lo Stato non è più temuto come troppo interventista, le tasse non sono più unanimemente considerate un freno per l’economia, “gli economisti delle istituzioni multilaterali sembrano a volte molto rilassati”, osserva il FT, nonostante il ritorno di un poderoso deficit spending da parte delle nazioni più ricche. “Una conversione che farebbe vergognare Paolo di Tarso”, scrive ancora il commentatore senza frenare l’enfasi, raccontando l’evoluzione delle posizioni di Fmi e Bm.
Un documento in particolare ha attratto l’attenzione degli osservatori internazionali: il Fiscal Monitor pubblicato dal Fondo monetario, pubblicizzato col titolo “A fair shot”, la dose giusta (di vaccino) ma anche la dose “equa”, “non solo nelle braccia delle persone ma nelle vite delle persone”, precisava il tweet di lancio dell’iniziativa. Per chi avesse dubbi, si parla di politiche fiscali e spesa pubblica.
Innanzitutto, domare la pandemia potrebbe valere “più di un trilione di entrate fiscali aggiuntive nelle economie avanzate entro il 2025 e consentire di risparmiare ancora di più in misure di supporto fiscale”. Non basta: per il Fmi “le stime globali indicano un aumento di 95 milioni di persone in condizioni di estrema povertà nel 2020 rispetto alle proiezioni pre-Covid-19”. Per fronteggiare l’eccezionale aumento delle diseguaglianze, quindi, “rafforzare la capacità fiscale nel mondo post-pandemico sarà cruciale per le economie avanzate e in via di sviluppo allo stesso modo per soddisfare le grandi esigenze di spesa”. Non solo: per il Fondo è auspicabile anche una maggiore cooperazione internazionale e un accordo sull’effettiva tassazione minima sulle imprese, obiettivo dichiarato della nuova amministrazione statunitense, che servirebbe per “frenare la concorrenza fiscale e consentire ai paesi di mantenere aliquote più elevate e ridurre le spese fiscali” (esenzioni, agevolazioni, eccetera). Anche se, avverte il documento, la bozza di intesa formulata dall’Ocse su questa materia ha “ambito relativamente ristretto e stime limitate” quanto alle entrate che potrebbe produrre. Infine, un’imposta “temporanea” sui redditi alti e sul patrimonio aiuterebbe ad “accumulare le risorse necessarie per migliorare l’accesso ai servizi di base e rafforzare le reti di sicurezza sociale”.
Tasse più alte sui redditi dei ricchi e patrimoniale, pare quasi di sentire il grido di dolore degli ospiti abituali dei talk show all’italiana. Anche se non va dimenticato che l’intervento sulle ricchezze sconta una sua debolezza di fondo, in un’epoca in cui la capacità fiscale degli Stati è minata soprattutto dall’inafferrabilità dei profitti e dei risparmi blindati nei paradisi fiscali. È presto in effetti per dire se e in che misura il discorso pubblico italiano sarà in grado di recepire questa radicale evoluzione del dibattito internazionale. E sarebbe azzardato attendersi una grande spinta all’innovazione da un governo popolato di mezze figure, in buona parte protagoniste della stagione peggiore del cosiddetto bipolarismo all’italiana.
Ma accanto all’inadeguatezza della politica, andrà misurata anche la resistenza ideologica delle alte burocrazie dello Stato temprate negli anni del suo progressivo indebolimento (burocrazie che, non va dimenticato, presidiano oggi con Daniele Franco il potente ministero dell’Economia). Un esempio, apparentemente marginale ma istruttivo, è rappresentato dall’audizione in parlamento di Giacomo Ricotti, capo del Servizio assistenza e consulenza fiscale della Banca d’Italia. La data è 11 gennaio 2021, quasi un anno dentro l’incubo della pandemia, dieci mesi dopo l’intervento di Mario Draghi sul Financial Times, in cui faceva appello, parlando di debito pubblico, a “un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra”. Tema dell’audizione di Ricotti è la riforma dell’Irpef e del sistema tributario in generale. Partendo dalla preoccupazione di “evitare di aumentare il livello complessivo del prelievo fiscale, già alto nel confronto internazionale”, Ricotti osserva che se l’auspicata “ricomposizione del prelievo fiscale a beneficio dei fattori produttivi” dovesse comportare “una perdita di gettito, questa andrà compensata con opportuni interventi di riduzione delle spese”. Una visione fortemente radicata nei decenni passati, una ricetta della quale abbiamo visto i risultati con l’impatto devastante della pandemia sul sistema sanitario nazionale fiaccato da anni di tagli e “razionalizzazioni”.
Quanto è lontana questa idea dalla linea che sta emergendo dal “nuovo Washington consensus”? Qualcuno avvisi Roma, prima che sia troppo tardi.