Il presidente uscente della Repubblica dell’Ecuador, Lenin Moreno, a pochi giorni dal secondo turno elettorale, ha dichiarato di “lasciare la casa in ordine”; si riferiva a una situazione in cui il paese, nel mese e mezzo tra la prima votazione e la seconda, avvenuta lo scorso 11 aprile, ha vissuto una sequenza di crisi in modo accelerato. Tra i dati poco certi riguardanti la pandemia e piani di vaccinazione ancor più incerti, quattro titolari della sanità hanno rinunciato a poche settimane l’uno dall’altro. “Il piano di vaccinazione esiste solo nella testa del ministro”, affermava Moreno il 23 marzo, riferendosi all’allora penultimo dimissionario, Juan Carlos Cevallos, mentre dava fiducia a Mauro Falconí, succeduto a Rodolfo Farfán e dimessosi il 7 aprile in favore di Camilo Salinas.
Tutto ciò ha accresciuto un clima di incertezza generale, aggravato dalla rivolta dei detenuti che il 23 febbraio era esplosa nelle carceri di Guayaquil, Cuenca e Latacunga, quest’ultimo considerato di massima sicurezza. Immagini terrificanti, filmate all’interno degli istituti penitenziari in tempo reale, hanno mostrato ai cittadini corpi di detenuti smembrati da motosega, scene di violenza inaudite, in cui in prima istanza si nota l’assenza delle forze d’ordine. La repressione, seppure tardiva, è stata dura: il bilancio è stato di settantotto morti con uno strascico di polemiche. La risposta ufficiale del governo è consistita nell’accusare le politiche di accentramento carcerario dei passati governi Correa (di cui Moreno fu vicepresidente), responsabili dell’aumentato sovraffollamento e di aver reso difficile il controllo delle feroci bande criminali che agiscono all’interno dei cancelli.
Questo scenario sarà parte dello sfondo dell’azione di governo da parte del neoeletto presidente, Guillermo Lasso, leader di Creo, coalizione legata al Partito social-cristiano, schieramento di centrodestra che, con il 52,5%, ha ottenuto la maggioranza alle urne nel secondo turno, battendo l’economista Andrés Arauz, fermo al 47,5%. L’esito elettorale, non previsto da molti sondaggi, è stato l’atto finale del secondo round di una campagna elettorale particolarmente “impressionista”. Il dibattito presidenziale televisivo del 21 marzo si è incentrato su varie questioni, e può essere utile ripercorrerlo, almeno per sommi capi.
Si è trattato di un confronto tra due candidati che hanno mostrato linee di comunicazione antitetiche nella forma, sebbene poi non così divergenti sulle questioni cruciali della gestione delle risorse petrolifere e dell’emergenza umanitaria, rappresentata dal flusso migratorio da parte di cittadini venezuelani. Sia il perdente Arauz, esponente progressista, sia il conservatore Lasso si sono espressi, senza entrare nel dettaglio, a favore di un’intensificazione dell’estrazione del petrolio “rispettosa della natura”, necessaria all’aumento di esportazioni di greggio, utili al bilancio nazionale che, tra l’ottobre 2020 e il marzo 2021, ha visto il debito con l’estero crescere dal 59,89% al 63% del Pil, secondo una linea di tendenza che pare irreversibile. Rimane così aperto il tema del futuro dei territori ecuadoriani in Amazzonia, oggetto delle trivellazioni, aree ricche di petrolio, ma allo stesso tempo considerate luoghi sacri dalle popolazioni indigene, oltre a essere riserve di biodiversità estremamente delicate.
Se dal punto di vista della politica internazionale le posizioni verso il Venezuela di Maduro non sorprendono – con Arauz a favore di una politica di “amicizia e pace con tutti” e il conservatore Lasso contro “la dittatura che rischia di contagiare tutto il Sudamerica” –, è sulla questione della gestione interna dell’immigrazione che i consueti schemi di destra e sinistra sono apparsi scardinati. Si stima che, nel giugno 2019, circa 240.000 venezuelani fossero presenti sul territorio ecuadoriano, cifra che nell’ultimo anno e mezzo, dominato dalla pandemia, è continuata a crescere, quasi raddoppiandosi fino alle 415.000 persone e oltre. Una vera e propria bomba sociale che divide e spaventa larghi settori dell’opinione pubblica. Soprattutto le classi economicamente più fragili temono per i posti di lavoro che i migranti potrebbero “rubare”, in quanto disposti a lavorare con un salario più basso e con meno diritti. Proprio agli elettori preoccupati della questione, e di un supposto aumento della criminalità, si è rivolto Arauz affermando di voler rispondere “mettendo al primo posto gli ecuadoriani”, organizzando un sistema di regolarizzazione basato sul rispetto dei diritti umani. Anche il neopresidente Lasso, d’altronde, ha puntato sulla risoluzione normativa e burocratica della questione, lasciando le modalità e le proposte operative di accoglienza a un enfatico “lavoreremo col cuore”.
Rimane il fatto che il problema dei flussi migratori dal Venezuela non è risolvibile solo con provvedimenti burocratici di regolarizzazione; è necessaria una politica d’integrazione. Interi gruppi familiari, fuggendo da una pesante crisi economica e da una condizione politica che considerano liberticida, vanno via dal Venezuela con ogni mezzo, spesso percorrendo a piedi moltissimi chilometri. Una delle mete privilegiate dai migranti è proprio l’Ecuador, paese vicino territorialmente, culturalmente e storicamente. Si pensi che l’eroe principale dell’indipendenza ecuadoriana è Antonio José de Sucre y Alcalá, venezuelano che combatté contro la corona spagnola per liberare le colonie e formare la Repubblica della Gran Colombia, poi dissoltasi negli attuali Stati della fascia equatoriale sudamericana.
La realtà della comunità venezuelana è complessa: sono all’ordine del giorno storie di ricongiungimenti familiari difficili o negati, separazioni brusche e racket di esseri umani con sfruttamento, anche infantile, di ogni tipo. Non è esiguo neppure il numero di cittadini di origine venezuelana integrati, anche in buone posizioni lavorative, i quali non sempre vedono di buon occhio l’aumento continuo di arrivi di connazionali in condizioni disperate. Esistono reti di solidarietà, gestite sia da venezuelani sia da ecuadoriani e Ong internazionali, ma nessuna in grado di rispondere organicamente all’emergenza economico-abitativa, sanitaria ed educativa di una popolazione in aumento, che non è di passaggio ma ha intenzione di risiedere stabilmente nel Paese andino
A parte ciò, i due candidati si sono divisi e reciprocamente attaccati su altre questioni: Lasso, mostrando un sorriso tiratissimo, seduto a un tavolo ingombro di fogli, ha dimostrato di saper incalzare dialetticamente Arauz, rimasto per tutta la diretta tv rigido e non particolarmente efficace né nell’attacco né, soprattutto, nel contrattacco. La tecnica retorica della ripetizione è stata usata in particolare dal candidato conservatore. Frasi come “Andrés, no mientas otra vez”, ribadita come una filastrocca, insieme con il ritornello di “essere nato in una famiglia della classe media, di lavorare dall’età di quindici anni, di essersi pagato di tasca propria studi e affitto”, hanno dominato uno scontro in cui le parole più usate da entrambi i candidati sono state: “mentire”, “privilegio”, “corruzione” “ossessione”.
I temi economici sono stati un punto centrale di divisione: se Arauz ha proposto una ricetta di protezionismo neocolbertiano, già utilizzata in passato per evitare la fuga di capitali all’estero, Lasso ha preannunciato l’indirizzo neoliberista che il Paese prenderà nei prossimi anni. L’intenzione, guardando il programma del neopresidente, sembra essere quella di implementare i trattati di libero commercio, facilitando così la movimentazione del denaro e delle merci: insomma la ricetta classica del Fondo Monetario Internazionale, unita allo sviluppo del settore primario dell’esportazione, cioè di quel sistema produttivo, non senza costi ecologici, dominato dalle immense piantagioni di banane sulla costa e dalle coltivazioni intensive di fiori nella regione della Sierra andina. Lasso ha infatti ripetuto più volte: “Più banane e fiori nel mondo significano più lavoro in Ecuador”.