Nella notte, la telecamera ruba le immagini fantasmatiche di questa storia di ordinaria frontiera. I polleros o coyotes, trafficanti di esseri umani, sono riusciti ad arrampicarsi sulla barriera, si sporgono sul nulla e lasciano cadere dall’altra parte due fagotti. Un breve volo di due metri, e poi i fagotti si animano, due piccole figure – due bambine – fuggono verso nord, due ombre luminose disegnate dai raggi infrarossi corrono fuori dalla portata della telecamera, verso il nulla della geografia e della storia.
Senza identità e senza più famiglia, con un nome o forse un numero di telefono cucito sulla manica della camicia: questo succede a Santa Teresa, sulla linea di confine a pochi chilometri da El Paso; ma succede ogni giorno e decine di volte al giorno lungo quello che una vecchia canzone di Manu Chau chiama il bloody border, la lunga frontiera di sangue tra Messico e Stati Uniti.
Intere famiglie arrivano qui dopo un viaggio terribile di settimane. Vengono dall’Ecuador o dai Paesi senza speranza del Centroamerica e hanno attraversato il Messico come un oceano di dolore. Infine, sotto il muro del nuovo mondo si separano dai figli, lanciati al di là della barriera o fatti strisciare lungo i tunnel scavati nella terra: almeno si salvino i bambini, almeno per i piccoli ci sia una speranza, nella lotteria della vita la carta del riscatto che viene negata ai padri.
In un giorno qualunque di marzo – calcola una puntigliosa inchiesta del País – le pattuglie della migra, gli agenti di frontiera degli Stati Uniti, hanno raccolto 561 niños no acompañados: bambini non accompagnati. Secondo Associated Press, la media dello scorso febbraio è stata di 332 bambini recuperati, con un incremento del 60% rispetto al mese di gennaio. Una catena di sofferenza, abbandono e paura, che non si è mai interrotta negli ultimi anni: 370 bambini nel maggio del 2019, ma anche 354 bambini nello stesso mese del lontano 2014, presidente Barack Obama.
Sono ormai quattordicimila i minori in custodia lungo il confine, il loro numero cresce ogni giorno e la pressione sta diventando insostenibile. Dopo che la nuova amministrazione americana ha deciso di allentare la rigida stretta all’ingresso decretata da Trump, accogliendo almeno i minori non accompagnati, sempre più spesso le famiglie dei migranti si separano dai figli e li mandano avanti nella terra di nessuno sperando in un successivo ricongiungimento. Potremmo chiamarlo il “paradosso della clemenza”: su questa amara frontiera dove ciascuno combatte a mani nude per la propria sopravvivenza, ogni misura di ragionevole umanità è destinata a creare un nuovo, sanguinante problema.
“Dove ci hanno portati? Che paese è questo? Siamo in America, in Messico o in Honduras?” Dalle pagine del País ecco un’altra storia di ordinaria frontiera. Un gruppo di migranti centroamericani incalzati da uomini in divisa attraversa il ponte che divide il Messico dagli Stati Uniti. Bambini in braccio, sandali ai piedi, pacchi e borse in spalla. Non hanno mai visto questo passaggio, non hanno mai visto questo traffico incessante, sanno in modo confuso che vengono respinti da qualche parte verso sud, e che il loro sogno resta irraggiungibile a nord.
Considerate il luogo: la città bifronte e i ponti che attraverso il Rio Grande uniscono e dividono due paesi e due mondi. El Paso a nord: un tranquillo municipio americano di villette suburbane, verdi giardini e pickup in lento traffico tra negozi, uffici e geometrici incroci. Ciudad Juarez a sud: l’oziosa calura del giorno e l’insonne gazzarra notturna di un caotico sobborgo messicano, il frastuono del traffico, la folla e la musica nel rumoroso alveare di cafés e pulperías.
Attraversavo questo stesso ponte più di venti anni fa mentre ancora si celebravano i fasti del Nafta, il trattato nordamericano di libero commercio, e si salutava il futuro di quella “terra di mezzo” che fu battezzata Amexica: una larga striscia di confine lunga oltre tremila chilometri, attraversata da ponti e dogane aperte, percorsa da migliaia di giganteschi autotreni, costellata da centinaia di maquiladoras: le fabbriche del nord che in Messico offrivano lavoro e pesos ai giovani figli del misero paese del sud.
Di quel sogno restano oggi pochi spiccioli, molta rabbia e queste folle cenciose fermate sulla frontiera. Il Messico è rimasto povero e corrotto. Il quadrante centroamericano – terra delle guerriglie degli anni Ottanta – è ostaggio della miseria e della violenza. Questi indocumentados, uomini e donne e bambini che oggi piangono sul ponte di El Paso, vengono dall’Honduras, e si sono messi in marcia quindici giorni fa, attirati dall’incerta notizia che Biden avrebbe regolarizzato le famiglie di immigrati con figli minori di sei anni.
Dall’Honduras sono passati in Guatemala, e poi dentro il Messico, dal Tabasco a Nuova Leon, fino a Reynosa. A McAllen, prima città degli Stati Uniti a ridosso della frontiera, li ferma la migra: sono centocinquanta, vengono detenuti per quattro giorni, poi imbarcati su un aereo e sbarcati infine a El Paso, 1200 chilometri a ovest rispetto al punto di ingresso negli Stati Uniti: una vera deportazione attraverso terre sconosciute. Guardate la mappa: abbandonati nel nulla, come potranno tornare nel loro Paese? Ora a decine sono sul ponte, in fila verso il Messico, senza poter guardare indietro. “Ci hanno ingannati”, si dispera Vilma Iris Peraza, che ha ventotto anni e tiene per mano la figlia Adriana, di tre anni.
Ingannati. La frontiera è un inganno o piuttosto, come scrive ancora El País, è un “luogo schizofrenico”: una tempesta perfetta dove si mescolano il caos centroamericano e la rovina economica di quei Paesi indotta dai cambiamenti climatici, gli effetti delle politiche segregazioniste di Trump, l’incerta strategia alternativa appena abbozzata dalla nuova amministrazione americana, e infine la nera minaccia della pandemia.
“Per i democratici l’immigrazione è un problema”, scrive l’analista David Leonhardt sul New York Times. E come potrebbe non esserlo? Il rompicapo dell’immigrazione è sarà il problema planetario per tutto il secolo presente. Per dirla con Bertolt Brecht, la soluzione è di una “semplicità difficile a farsi”: fermezza alle frontiere, umanità negli ingressi, generosità verso gli immigrati che vivono negli Stati Uniti, ultimo ma non per importanza: ascolto dell’elettorato.
Intanto questa è davvero – insieme alla sfida del virus – la prima vera crisi che deve affrontare il nuovo presidente. La risposta non sembra finora all’altezza della crisi: mentre Washington annuncia l’invio in Messico di due milioni e mezzo di vaccini, il governo messicano blocca la sua frontiera sud e dispiega migliaia di militari della Guardia nazionale per frenare – almeno frenare – questo esodo biblico verso gli Stati Uniti. Troppo poco e troppo tardi. Così, appare disarmato l’appello di Biden all’esercito dei camminanti che si mettono in viaggio verso il miraggio del nord: “don’t come over”, “que no vengan, por favor”, “vi prego, non venite.”