Pierre Poujade, chi era costui? Un cartolaio di un piccolo borgo nella Francia centrale, che negli anni Cinquanta del secolo scorso diede vita a un sindacato dei commercianti dal forte accento antifiscale. Si presentò alle elezioni, ottenendo un certo successo, con un movimento denominato Unione e fraternità francese. Tra le sue file, fu eletto per la prima volta il padre di Marine Le Pen, quel Jean-Marie che successivamente fondò il Fronte nazionale con la benedizione di Giorgio Almirante, riprendendo dal Movimento sociale italiano il simbolo della fiamma tricolore, finito poi nell’emblema di Fratelli d’Italia.
“Tutto si tiene”, come dicono i francesi. La storia talvolta va a ritroso: essere “postfascisti” può significare essere “prelepenisti” o “neopoujadisti”. La proposta venuta da Meloni e dai suoi (ma respinta in Senato) di destinare i soldi del cashback, cioè il parziale rimborso delle spese effettuate con carta di credito, anziché agli utenti, ai ristori per le aziende in difficoltà, va collocata infatti all’interno di una prospettiva prettamente poujadista. La misura voluta dal governo Conte 2, disincentivando l’uso del denaro contante, è stata una mossa concreta contro l’evasione fiscale, nella quale si distinguevano, ben prima della crisi sanitaria, molti negozianti. Proporre di assegnare i soldi, invece che agli acquirenti, al sostegno per i venditori, è la stessa cosa che dire a questi ultimi: “Tranquilli, evadete pure, anzi vi giriamo anche quel piccolo premio che si pensava di dare a chi utilizza la moneta elettronica per i pagamenti”.
Il fascismo è stato molte cose: “tendenzialmente repubblicano”, poi monarchico e ancora repubblicano, o meglio repubblichino, liberista ma anche antiliberista, per la rivoluzione e al tempo stesso per l’ordine. Che, nella sua forma “post”, si facesse difensore dell’evasione fiscale lo si poteva dunque persino prevedere, perché, ai margini della sua storia, si trova pure il populismo in versione poujadista. Se si considera che adesso i meloniani sono quasi in rotta di collisione con i leghisti, che vorrebbero sloggiare dalla presidenza del Copasir, il quadro si fa più preciso: nella futura coalizione elettorale di destra la rivalità tra i due populismi sarà all’ordine del giorno. Ma quale sarà la ragione sociale, per così dire, di questa lotta intestina tra soci?
Sulla questione dell’evasione fiscale – vista l’analoga propensione leghista per i condoni e la riduzione delle tasse – i due partner andranno tutto sommato a braccetto, al massimo potrà esservi tra loro un’amichevole gara a chi la spara più grossa. Un autentico punto di frizione potrà esserci, invece, riguardo alla rappresentanza degli interessi suddivisi in maniera territoriale: ai leghisti soprattutto il poujadismo del Nord, ai meloniani soprattutto il poujadismo del Sud. L’abituale corredo di capri espiatori (dagli immigrati fino a Soros, il finanziere americano-ungherese, già bestia nera di Orbán) sarà un orpello inevitabile, ma appunto solo un orpello, al di sotto del quale, a saper guardare, si potrà scorgere la semplice e nuda verità degli interessi contrastanti da amalgamare.
Ecco, ci si potrà sbagliare sui tempi di questa coalizione – da riprendere al momento delle elezioni oppure dopo, in parlamento –, ma siamo pronti a scommettere che il canaio, a tratti già udibile, di quelli che dopo la pandemia si sentiranno con le pezze al culo, e in parte lo saranno davvero, prenderà la forma di un poujadismo a due corni.
Ora, la domanda è: sul versante opposto dello schieramento politico, quali contrappesi, almeno di ordine tattico se non strategico, si intende mettere in campo? Fermo restando che il blocco borghese delle regioni del Nord del paese (che spesso riunisce gli imprenditori e i loro dipendenti, i tardoberlusconiani di una Milano ormai più bevuta che da bere, i veneti e i lombardi, con ampie spruzzate di benestanti, o ex benestanti, del Nordovest) resterà nel prossimo futuro quello che è, fermo restando che questo grumo di interessi corporativi – differenti eppure coalizzati tra loro – sarà molto difficile scioglierlo a breve in un qualsiasi programma di centrosinistra, non sarebbe il caso di occuparsi in primo luogo delle “plebi del Mezzogiorno”, cioè di coloro costretti a essere briganti o emigranti (come diceva Francesco Saverio Nitti), mettendoli al centro di un progetto di rinascita, di un piano di investimenti pubblici finanziati con il Recovery Plan? Non sarebbe una ripresa in grande stile della questione meridionale come questione nazionale ed europea la principale carta politica da giocare per un’alleanza di centrosinistra che non sia soltanto il solito fragile accordo tra apparati politici, ma abbia una sua base sociale specifica e, con questa, qualche possibilità di successo elettorale?