Marcel Ferdinand Bloch ha avuto una vita lunga e drammatica ma ricca di soddisfazioni. I suoi cacciabombardieri Mirage hanno contribuito a decidere la guerra dei sei giorni, i suoi bireattori Falcon portano in giro per il mondo ministri, manager e rockstar. Nato a Parigi nel 1892 e scomparso nel 1986 a 94 anni, progettista e industriale aeronautico, sopravvissuto a Buchenwald dove era stato deportato perché ebreo, ha dato vita al gruppo Dassault (cognome di fantasia adottato nel dopoguerra e derivato dal soprannome di suo fratello, generale della Resistenza francese). Secondo l’ultimo rapporto dello Stockholm International Peace Research Institute, Dassault è entrata nel 2019 nei venticinque maggiori produttori di armamenti a livello globale, grazie al +105% nelle esportazioni dovuto al successo del caccia multiruolo Rafale. Non è facile immaginare di associare il suo nome alla presunta rivoluzione verde europea. La notizia che Dassault Systèmes, azienda del gruppo che vanta una leadership mondiale “nella gestione del ciclo di vita del prodotto (PLM)”, ben piazzata sul mercato aerospazio-difesa, sia membro fondatore della neonata European Green Digital Coalition, comprensibilmente, ha attratto la nostra attenzione.
Tra gli obiettivi dichiarati del patto, siglato inizialmente da ventisei capi azienda di giganti del calibro di Vodafone, Microsoft, Ibm, oltre a “investire nello sviluppo e nella diffusione di tecnologie e servizi digitali più verdi” e a “sviluppare metodi e strumenti per misurare l’impatto netto delle tecnologie digitali verdi sull’ambiente e sul clima”, figura quello di “co-creare con i rappresentanti di altri settori raccomandazioni e linee guida per la trasformazione digitale verde di questi settori a vantaggio dell’ambiente, della società e dell’economia”. L’ultimo impegno è molto significativo: i grandi gruppi industriali, le grandi concentrazioni di capitali ambiscono a indicare la strada, a orientare, a guidare la trasformazione “della società e dell’economia”. “Vasto programma”, avrebbe chiosato il generale De Gaulle caro a Marcel Dassault: non privo di rischi, tuttavia, se lasciato solo in quelle mani.
Il parlamento chiede fondi green per le armi
Ma la cosa più importante è che non si tratta di un episodio isolato. Il piano europeo per la ripresa post-pandemia, per quanto limitato rispetto ai sussidi sociali e agli investimenti programmati dell’amministrazione Biden, e benché non ancora realmente operativo, concentra su di sé l’attenzione di grandi interessi economici organizzati. Un altro segnale di questo protagonismo è la decisione unanime delle commissioni Difesa di Camera e Senato di chiedere, a conclusione di un ciclo di audizioni che includeva gli operatori del settore, l’inserimento degli investimenti per la spesa militare nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Nella versione del governo Conte, che l’attuale esecutivo si è impegnato a emendare, il Piano aveva lasciato ai margini le esigenze del comparto degli armamenti, di grande rilevanza per l’industria nazionale (l’Italia è stabilmente fra i primi dieci esportatori al mondo), ma scarsamente in sintonia con l’obiettivo dichiarato della transizione ecologica. Molto trasparente, in particolare, la posizione emersa dai deputati, che chiedono di dare “piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare, promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, anche in favore degli obiettivi che favoriscano la transizione ecologica”. La parola “anche” dice molto, se si tiene presente che la chiave di volta delle intese raggiunte nel 2020 nell’Unione europea sui vari strumenti da attivare nei prossimi anni è certamente l’enfasi posta sulla centralità della lotta ai cambiamenti climatici.
Rapporto Ue: le aziende ingannano i consumatori
Mezzo secolo fa, con il rapporto sui limiti dello sviluppo pubblicato dal Club di Roma, si aprì il dibattito sul rapporto fra il genere umano e le risorse del pianeta. Una riflessione critica che ha contribuito alla nascita del moderno ambientalismo politico. Una efficace battuta un po’ veteromarxista diceva che l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio. Ora che l’emergenza mondiale causata dalla pandemia ha richiesto un improvviso ritorno dello Stato e delle banche centrali sulla scena, svegliando dal torpore (almeno si spera) perfino le sonnolente istituzioni europee, sarebbe grave non cogliere l’occasione per una reale ridiscussione del modello di sviluppo e lasciare che la transizione ecologica si fermi a una mano di brillante pittura “verde” sui muri dell’edificio europeo. Sono temi non nuovi, ma non è nuova nemmeno la minaccia che da qualche decennio è stata battezzata “greenwashing”, lavaggio verde, ovvero la tecnica di comunicazione utilizzata per vendere al grande pubblico (e ai legislatori) un’immagine ambientalista di aziende e prodotti inquinanti o comunque pericolosi. In un articolo di qualche anno fa, il “Guardian” ricostruisce un po’ la storia del greenwashing. Se n’è occupato nel 2020 anche il parlamento europeo, adottando nuove norme sul supporto ai progetti sostenibili con l’intenzione dichiarata di “evitare di finanziare progetti greenwashing”. Le tecniche di marketing hanno sconfinato da decenni in ambito politico, ma in ambito commerciale sono da sempre ampiamente utilizzate per riverniciare la realtà. In un rapporto reso noto nel mese di gennaio 2021, ordinato dalla Commissione Ue e redatto in collaborazione con International Consumer Protection and Enforcement Network, viene documentato come – su un vasto campione di siti commerciali –, dopo l’esame di 344 affermazioni potenzialmente dubbie, nel 42% dei casi sono state rilevate affermazioni “false o ingannevoli”.
Non è diversa, solo più grande, la dimensione della posta in gioco per quanto riguarda le politiche della transizione digitale e del cosiddetto Green New Deal europeo. La selezione tra ciò che è “verde” e ciò che non lo è sarà determinante per tracciare la strada che l’Unione europea imboccherà nei prossimi decenni. Ora che il Centro comune di ricerca della Commissione europea – in un parere che non è stato ancora pubblicato ufficialmente, ma che già da diversi giorni circola su diversi media internazionali – ha rilanciato le antiche tesi sulla presunta sostenibilità dell’energia nucleare (ma anche del gas e dell’idrogeno non prodotto con fonti rinnovabili), preparando il terreno per far rientrare le centrali atomiche addirittura nel sistema di classificazione degli investimenti verdi, sarà il caso di accendere i riflettori su questo tema.