Il presidente degli Stati Uniti è l’uomo più potente del mondo? Si direbbe di sì, ma è sbagliato. Per quel che riguarda la politica interna il presidente ha molti meno poteri di un capo di governo parlamentare europeo. Anche i suoi excutive orders sono molto più limitati dei decreti legge francesi, inglesi o italiani. Senza il consenso di entrambi i rami del Congresso, la sua capacità di azione è praticamente inesistente. Questo è quanto specifica la Costituzione americana, la più antica (e la più obsoleta) del mondo.
Ma c’è un ambito nel quale il presidente americano è sovrano perché il suo potere è esclusivo: quello di fare la guerra. È un potere consacrato dall’articolo II della Costituzione che gli attribuisce le prerogative di capo del governo, di comandante in capo delle forze armate e di responsabile della politica estera. Naturalmente, all’epoca dei padri fondatori, c’era la buona abitudine di dichiarare la guerra prima di farla e questo potere spettava al Congresso. Inoltre ogni guerra richiedeva la mobilitazione di centinaia di migliaia di soldati e per farlo ci voleva tempo, cosicché una decisione improvvisa del solo presidente era altamente improbabile.
Dopo la seconda guerra mondiale, invece, non ci sono più state guerre dichiarate tra le molte che gli Stati Uniti hanno fatto. La guerra del Vietnam è andata avanti per nove anni sotto la copertura di “assistenza militare al Vietnam del Sud”, nonostante la devastazione del paese, i 55.000 morti americani e i milioni di vittime vietnamite. Dopo il Watergate fu approvata una legge, il War Powers Act, che consentiva al presidente di condurre operazioni militari difensive, ma solo per un periodo di sessanta giorni, dopo di che doveva ottenere l’approvazione del Congresso. Ora, nel Ventunesimo secolo, in sessanta giorni si possono fare molte cose: attacchi con i corpi speciali, bombardamenti dall’alto, missili e droni sui bersagli “nemici”, devastanti attacchi informatici – tutte cose che un presidente può fare di sua sola volontà.
Negli anni Novanta è arrivato il terrorismo e nel 2001 i terribili attacchi dell’11 settembre: a quel punto nessuno si è più posto interrogativi di legittimità. Secondo la definizione di George Bush, quella al terrorismo era (ed è ancora) una “guerra” che poteva e doveva essere condotta con qualsiasi mezzo, per un tempo indefinito e contro qualsiasi obiettivo, ovunque si trovasse, anche in paesi con cui gli Stati Uniti non avevano motivi di contesa.
La vaga legge antiterrorismo del 2001 ha consentito l’invasione dell’Afghanistan e legittimato una guerra che dura da vent’anni. Un’altra legge del 2002, sempre in nome della lotta al terrorismo, ha consentito l’invasione dell’Iraq e l’abbattimento del regime di Saddam Hussein, senza che, come poi si è saputo, l’Iraq rappresentasse una minaccia terroristica o di altro genere per gli Stati Uniti, e naturalmente senza che gli venisse dichiarata guerra.
Dall’Iraq le truppe americane sono state ritirate nel 2011, ma ci sono ritornate nel 2014 per ordine di Barack Obama per contrastare lo Stato islamico (Isis). Sconfitto in larga misura l’Isis, sono continuate le operazioni militari “mirate” con forze speciali, droni e missili contro presunti obbiettivi terroristici, che hanno provocato la morte di migliaia di vittime civili, in Medio Oriente, ma anche in vari paesi dell’Africa sub-sahariana. Fino all’assassinio nel gennaio del 2020 a Bagdad, con un attacco missilistico, del generale iraniano Qasem Soleimani.
Anche in questo caso la giustificazione è stata: lotta al terrorismo. Ma governo e parlamento iracheni, indignati per l’ennesima violazione della loro sovranità e pressati da imponenti manifestazioni popolari, hanno chiesto il ritiro di tutte le truppe americane: ritiro che non è ancora stato completato ma dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) avvenire presto. Anche in Afghanistan i lunghissimi negoziati diretti tra talebani e governo americano, dai quali il governo afghano è stato escluso, hanno stabilito una data, il primo maggio 2021, per il ritiro dell’intero contingente militare americano.
Possiamo dire quindi che stanno per terminare le guerre americane in Medio Oriente iniziate un ventennio fa, che tanto sono costate agli Stati Uniti in termini di vite umane e di spesa senza produrre apprezzabili risultati? Non proprio. La giustificazione per continuarle col passare degli anni è stata la lotta al terrorismo, l’esportazione della democrazia, la stabilizzazione della regione, lo sviluppo economico, la lotta contro la corruzione, perfino la liberazione delle donne. Nessuno di questi nobili obiettivi (a parte la sconfitta sul campo dell’Isis, ma non della sua rete terroristica) è stato raggiunto. E così, di volta in volta, ogni candidato alla presidenza ha promesso il ritiro delle truppe… per poi rimangiarsi la promessa una volta divenuto presidente. Anche per quel che riguarda il ritiro dall’Afghanistan, che dovrebbe avvenire tra poche settimane, sembra che ci siano ripensamenti. Il capo dello stato maggiore congiunto, Mark Milley, si è detto contrario, e Biden ha disposto, prima di prendere la decisione finale, uno “studio accurato”, l’ennesimo.
Il fatto è che l’immenso apparato militare americano – con milioni di dipendenti, con centinaia di basi e centinaia di migliaia di uomini sparsi in tutto il mondo, con flotte che operano in permanenza su tutti i mari, con reti di sorveglianza e spionaggio che coprono l’intero pianeta (e lo spazio extraterrestre), con un bilancio di 750 miliardi di dollari che dà lavoro a decine di migliaia di imprese e milioni di lavoratori – è come una gigantesca corazzata che si muove di volontà propria, senza bisogno del comandante, scarsamente sensibile alla direzione che la politica vuole imprimergli. Ci sono certo gli interessi e le pressioni del “complesso militare-industriale” e i voti che esso porta alla politica, ma c’è anche una ideologia, comune a democratici e repubblicani, secondo la quale quando l’America interviene lo fa per motivi nobili e, con la sua potenza militare e l’esempio delle sue istituzioni, l’intervento non può che avere successo – al massimo potrà essere questione di tempo.
È questa la visione comune a quel corpo di specialisti – militari, diplomatici, accademici, uomini d’affari – che condizionano le scelte di politica estera e indirizzano le decisioni militari, cosicché ogni conflitto armato finisce col diventare una never-ending war, una guerra senza fine. Forse, dopotutto, neanche per quel che riguarda il potere di fare la guerra – e di porvi fine – il presidente americano è l’uomo più potente del mondo.