Molti dicono che non dobbiamo permettere che da questa tragedia della pandemia si esca con le vecchie logiche di sviluppo. Già negli anni Settanta del Novecento i lavori di vari autori mostravano come l’intensità dei consumi di capitale, risorse ed energia, fosse inversamente proporzionale alla richiesta di lavoro. In altre parole, un oggetto che richiede alti costi di materiali ed energia, richiede poco lavoro per produrlo e mantenerlo. Di recente, Laura Pennacchi (“il manifesto” 1/5/2020) ricordava che il New Deal roosveltiano si basava “sull’idea-cardine che alle persone si dovesse dare non un sussidio ma un lavoro con una paga adeguata”. Non tutti però si rendono conto dellostretto legame tra la perdita di posti di lavoro e l’aumento dei consumi energetici.
Purtroppo quando si parla di energia, per la maggior parte delle persone la mente corre solo all’energia elettrica, benché essa non sia che una quota di circa il 20% dei consumi italiani. Tale idea è ulteriormente rafforzata dalla necessità di passare alle fonti rinnovabili, per lo più produttrici di energia elettrica. Un aspetto da considerare è la differenza tra fonti energetiche ed energia. In realtà, alla popolazione interessa scaldarsi, cuocere i cibi, spostarsi, avere l’illuminazione ecc. Interessa, cioè, avere una serie di servizi che possono essere forniti in modi diversi: per esempio, si può usare un treno con automotrice che va a benzina o un treno elettrico che riceve energia da una centrale idroelettrica, e il servizio reso non cambia. Occorre quindi considerare il servizio e la quantità e la forma di energia necessaria a fornirlo. Purtroppo si parla di solito di bilanci energetici, mentre in realtà si fanno i bilanci delle risorse, delle fonti utilizzate per produrre l’energia, e non si valuta correttamente l’energia effettivamente usata. Quest’ultima, infatti, dipende fortemente da come vengono utilizzate le risorse, da quale sistema di distribuzione e trasformazione possiede il paese, e da come si considerano le leggi della termodinamica. La qualità termodinamica dell’energia va strettamente legata all’uso che se ne fa: come si sa e si ripete da tempo, usare energia elettrica per fare acqua calda a 50°C è uno sperpero assurdo.
Nell’attuale crisi climatica sarebbe inoltre fondamentale ridurre rapidamente le emissioni di CO2 equivalente, avviando contemporaneamente la transizione verso un sistema basato solo sulle fonti rinnovabili. Parlando di sistemi di produzione e distribuzione di energia, non si può dimenticare l’entità delle risorse materiali e monetarie da impegnare. Sarebbe perciò importante usare le infrastrutture esistenti per indirizzarle a un nuovo sistema.
Le direttive europee richiamano al risparmio in particolare nel settore dell’edilizia, che rappresenta il 40% dei consumi energetici finali, conducendo al concetto di edificio NZEB (Nearly Zero Energy Building), con bilanci energetici in pareggio. Ciò è possibile però negli edifici nuovi; che cosa fare per quelli nei centri storici? Possiamo modificare gli impianti e usare tecnologie esistenti, utilizzando il metano in modo termodinamicamente corretto in impianti di cogenerazione, cioè di produzione contemporanea di calore ed elettricità; e inoltre possiamo usare tali impianti nella fase di transizione se, oltre a utilizzare direttamente il calore di scarto dalla produzione di energia elettrica nel riscaldamento/condizionamento, si usa l’energia elettrica per riscaldare altre abitazioni con pompe di calore. Il metano bruciato in una caldaia a condensazione viene usato al 95%. Se usato come sopra indicato, fornirebbe il 150% almeno. A parità di servizio, si avrebbe il 40% in meno di emissioni.
Il passaggio al “tutto elettrico” richiede la realizzazione di infrastrutture per una rete che interconnetta i produttori locali, ma richiedendo risorse ingenti, dato che si dovrebbe quintuplicare la produzione con la relativa distribuzione di energia elettrica. Le tecnologie esistono e darebbero lavoro a molte persone. L’uso dell’idrogeno come sistema di accumulo è da perseguire, anche se solo in associazione con fonti rinnovabili per la sua produzione. In prospettiva, si potrebbe utilizzare metano ottenuto con idrogeno da fonti rinnovabili come propone il progetto europeo Store&go, riutilizzando tutte le infrastrutture esistenti. Il metano sarebbe ottenuto da una reazione chimica classica tra idrogeno e anidride carbonica (CO2) ricavata dall’atmosfera o da residui organici (processo Sabatier).
L’idrogeno viene proposto da tempo come vettore energetico, ma non si considera che è inefficiente come tale, contrariamente a quanto pubblicizzato dall’Eni. Infatti ha un elevato volume specifico e quindi bassa densità energetica per unità di volume; inoltre richiede infrastrutture particolari, dato che infragilisce l’acciaio e perciò non è utilizzabile in impianti e tubazioni che usano questo materiale. La Snam, che si propone per il suo dispacciamento, anche sul proprio sito web, parla infatti di una miscela di idrogeno e metano da inviare negli attuali metanodotti, con un massimo del 30% di idrogeno. Anche nei trasporti la bassa densità energetica, per unità di volume, richiede che esso venga compresso, si parla di 300 bar, con inefficienze di ciclo e rischi nell’uso. Si consideri che i criteri di sicurezza sono diversi per i vari gas, ed è necessaria una formazione specifica per ciascuno di essi, spesso assente come dimostrano i morti sul lavoro per incidenti dovuti a questa ignoranza. Dato che la combustione dell’idrogeno non produce CO2 viene proposto per molti usi, ma la sua provenienza è realmente “pulita”, è “green”, solo da fonti rinnovabili. Oggi però quello sul mercato è “grigio” (o “blu”), perché ottenuto da combustibili fossili, prevalentemente metano “decarbonizzato” producendo CO2, che dovrebbe essere immagazzinata in vari modi, prevalentemente sotto terra (vedi progetto Eni-Snam su Ravenna, che si vorrebbe realizzare con i fondi europei, vendendo una inesistente transizione, che comunque permetterebbe di sfruttare i giacimenti di metano fino a esaurimento).
Il mito dell’idrogeno affascina anche i produttori di aerei, come Airbus che parla di realizzare entro il 2035 aerei che usino idrogeno liquido: una tecnologia fino a oggi utilizzata solo per alcuni razzi lanciatori come il Saturn americano, però per tempi brevissimi e senza porre attenzione al consumo complessivo di energia, condizionato dal portare l’idrogeno a -253 °C. È opportuno ricordare che il raffreddamento di un sistema richiede tanta più energia quanto più bassa è la temperatura da raggiungere, tendendo all’infinito per raggiungere lo zero assoluto che si trova a -273,15 °C.
Quindi, oltre al problema sicurezza, esiste quello del consumo energetico folle che una simile proposta comporta.
La fame di potenza continua a spingere verso la realizzazione di nuovi impianti nucleari, dimentichi di Fukushima – dove ancora non sanno che cosa fare con le acque radioattive, proponendo solo di buttarle in mare – e del fatto che non si è ancora risolto il problema delle scorie. Tutti i progetti di confinamento definitivo sono in realtà fermi; il caso dei depositi tedeschi in giacimenti salini si è rivelato un errore costosissimo, a causa delle infiltrazioni di acqua con crollo dei giacimenti e inquinamento radioattivo delle acque di falda. Da noi la Sogin, società pubblica, continua a bruciare miliardi per smantellare le poche nostre centrali e non riesce a trovare il deposito finale. Tuttavia si realizzano impianti nucleari in paesi come gli Emirati arabi, a un passo dagli impianti petroliferi distrutti da misteriosi droni in Arabia Saudita non molto tempo fa.
Per quanto riguarda la fusione termonucleare, è ancora attuale l’articolo di V. Cirillo del 1994 (“Le Scienze”, n. 316, 1994). Purtroppo nessun reattore sperimentale ha ancora raggiunto una produzione di energia maggiore di quella assorbita per funzionare. Il reattore Iter, sperimentale, è ancora in costruzione, malgrado si prevedesse di completarlo nel 2010. Si parte dal solito concetto di produrre calore da convertire poi in lavoro; termodinamicamente parlando, un’assurdità, vista la qualità termodinamica della fonte. Dopo settant’anni di ricerche non si intravedono ancora prospettive concrete, solo promesse. Come scriveva Cirillo, “se qualcuno proponesse oggi all’Unione europea investimenti di 1600 miliardi di lire [circa un miliardo di euro attuali] all’anno per sessant’anni, in cambio di una probabile fonte di energia illimitata […], verrebbe semplicemente ignorato”. Inoltre il processo non è poi così “pulito”, dando sempre origine a rifiuti radioattivi. Investimenti minori in fonti rinnovabili sarebbero sicuramente più economici, con minore impatto ambientale e maggiore possibilità di diffusione sul territorio.
Purtroppo l’analisi del sistema complessivo è normalmente assente, in particolare pare completamente sconosciuto il secondo principio della termodinamica, pure enunciato da Carnot già nel 1824. Il programma Desertec, che punta soprattutto su impianti a concentrazione, cosiddetto solare termodinamico, da realizzare nei deserti del Nord Africa, facendo bollire l’acqua, segue la stessa linea di bassa efficienza termodinamica delle attuali tecnologie nucleari. E neppure è esente da una visione colonialista, dato che l’energia prodotta dovrebbe rifornire l’Europa. La ricerca dovrebbe puntare a utilizzare correttamente le risorse, non a inventare sempre diversi pentoloni a pressione per sfruttare male una risorsa scarsa. Un impianto che usi cicli termodinamici per trasformare calore in lavoro, dovrà pur sempre cedere calore all’ambiente, e questo sarà tanto maggiore quanto minore è l’efficienza del sistema di conversione. È necessario perciò puntare prima di tutto a una razionalizzazione termodinamica del sistema energetico complessivo, dalla produzione alle utenze: perché ciò significa minori consumi e inquinamento a parità di servizi.
Per avere un sistema capace di adeguarsi ai cambiamenti del mercato dell’energia, èfondamentale realizzare impianti che non impongano rigidità strutturali, cioè impianti di dimensioni non eccessive, così da ridurre i rischi di interruzione delle forniture aumentando il numero dei fornitori, diversificando le fontie possibilmente utilizzando fonti non dipendenti da importazioni. Impianti che non usino prodotti il cui ciclo di lavorazione non sappiamo ancora chiudere, come nel caso del nucleare, che ancora non ha risolto il problema delle scorie, e che non presuppongano il controllo del territorio da parte di autorità. È necessario considerare che la distribuzione territoriale condiziona il ciclo di produzione, e quindi i consumi energetici e la produzione di inquinanti. Un’integrazione su scala territoriale, sia delle attività industriali sia di quelle civili, per risparmiare energia e ridurre l’inquinamento: questa è la strada che può creare un sistema sostenibile per il futuro.
La cultura attuale sembra invece rigettare o dimenticare ogni elaborazione che cerchi di dare una chiave di lettura e interpretazione della realtà diversa da quella usuale. La crisi climatica, e i movimenti di giovani che reclamano di poter avere un futuro, associata alla crisi economica derivata dalle bolle finanziarie del 2008, hanno rimesso in discussione il capitalismo e la sua necessità di crescita continua, misurata essenzialmente da quel Pil già criticato da Robert Kennedy molti anni orsono, e superato da parametri come l’indice di sviluppo umano (HDI, Human Development Index) adoperato dall’Onu. Personalmente, non sono contrario alla crescita in assoluto – bisogna infatti tener conto dello sviluppo dei Paesi emergenti –, ma sono convinto che tale sviluppo non possa e non debba seguire le orme di quello dei paesi industrializzati, pena la loro e la nostra scomparsa. L’ambiente non è un optional da ricchi, né dovrebbe richiedere tecnologie ad hoc per la sua difesa. La sostenibilità ambientale avvantaggia soprattutto i meno abbienti, più facilmente vittime di alluvioni e temperature eccessive, oltre che meno capaci di ottenere cibo e acqua a sufficienza. Le carestie hanno avuto spesso origine da scarse risorse economiche più che da effettiva mancanza di cibo.
È necessario però che le tecnologie produttive siano compatibili con l’ambiente: il progresso tecnologico non deve essere orientato all’aumento della produttività dei lavoratori, ma all’aumento della produttività del capitale, soprattutto di quello naturale. Mi rifaccio qui agli scritti di Hermann E. Daly (Lo stato stazionario, Sansoni, 1981), a quelli di Barry Commoner o di Orio Giarini (Dialogo sulla ricchezza e il benessere, Mondadori, 1981), per non parlare di N. Georgescu-Roegen, ben noto a chi si interessa di economia. Si parla sempre più di sviluppo invece che di crescita, ma spesso si intende la stessa cosa, anche se la distinzione sarebbe stata introdotta proprio per tener conto del fatto che la crescita economica non corrisponde sempre e soltanto a una maggiore produzione di oggetti e a un maggiore consumo di risorse. Che il pianeta e le sue risorse siano finite, dovrebbe essere evidente a tutti: la crescita di consumi non può continuare all’infinito, ed è necessario assicurare equità nell’uso delle risorse. È impossibile pensare a una tutela dell’ambiente, con ridotti consumi, senza maggiore giustizia sociale.
Esistono da decenni metodologie di valutazione dei processi, per esempio l’analisi del ciclo di vita (LCA) già normata da anni, che permettono di scegliere le tecnologie con minor impatto ambientale complessivo, dalla culla alla tomba. Solo utilizzandole sarà possibile costruire la tanto decantata economia circolare. Non dimenticando mai che nel ciclo ci saranno comunque perdite; dalla termodinamica sappiamo infatti che un riciclo totale è impossibile. È necessario abbandonare i luoghi comuni e tornare ad assegnare alle parole il loro significato originario e non solo il senso traslato, se vogliamo ragionare sul futuro degli esseri umani e sul loro benessere su questo pianeta, se vogliamo che “sviluppo sostenibile” non sia solo uno slogan per chi vuole continuare a mantenere un impossibile status quo.