“Assassino! Idiota! Aguzzino di popoli!” Non se le sono mandate a dire Vladimir Vladimìrovic Putin e Joe Robinette Biden nel più recente scambio diplomatico sull’asse Washington-Mosca. Così, ora – a sentire gli esperti – le relazioni politiche tra i due uomini più potenti del pianeta sono precipitate sotto zero come nemmeno il gelido inverno siberiano. Porte sbattute, ambasciatori che spolverano le valige e si fanno un giro in patria a salutare i parenti, residenze diplomatiche in allarme rosso, televisioni e giornalisti finalmente embedded e pronti a seguire la truppa.
A onor del vero, ha cominciato l’americano: quel “killer” sibilato allo zar russo è parso subito l’ennesimo passo falso di una lunga carriera di gaffeur, ma poche ore dopo ci ha pensato il portavoce della Casa Bianca a confermare, dissipando ogni dubbio: “Il presidente voleva dire proprio questo”. Segue una lista di capi di accusa lunga così: dalla guerra in Ucraina all’annessione della Crimea, fino al caso Navalny, alla persecuzione dei dissidenti e alle indebite ingerenze nelle elezioni presidenziali americane.
Del resto la legge del branco funziona anche ai piani alti della politica globale, e si può ben capire la mossa di Biden: per dirla con il linguaggio della strada, il presidente americano è the new kid in the block, il “ragazzo nuovo nel quartiere”, e deve far intendere alla vecchia banda che con lui non si scherza. Questione di pura sopravvivenza, nei disastrati condomìni del Bronx come nella “lotta nel fango” della politica internazionale.
La risposta di Putin non si è fatta attendere e ha dato fondo al più sperimentato bagaglio propagandistico di epoca sovietica: un puntuale compendio storico delle malefatte americane, dalla bomba atomica su Hiroshima, via via arretrando fino al genocidio dei nativi americani. Per intenderci: lo spietato far west, cow boy contro pellerossa, il generale Custer contro Toro seduto.
L’uomo del Cremlino ha infine sigillato il capo di accusa citando un vecchio proverbio russo, che recita più o meno: “chi lo dice lo è…” Cioè, tradotto nel linguaggio di Forrest Gump: “stupido è chi lo stupido fa.” E a casa mia, più semplicemente, “il bue dice cornuto all’asino.” Chiude, il russo, augurando “buona salute” all’americano. Questa “buona salute” è una antifrasi, cioè una figura retorica in cui si afferma il contrario di ciò che si intende realmente esprimere. A Testaccio – dove il greco antico non è di casa – si direbbe: “li mortacci tua…”.
Antifrasi o augurio alla rovescia, il malizioso auspicio del Cremlino è sembrato funzionare, perché Biden poche ore dopo scivola tre volte sulla scaletta dell’aereo presidenziale, imitando l’inglorioso ruzzolone dell’antico presidente Gerald Ford, benevolmente descritto a suo tempo come incapace di camminare e nello stesso tempo masticare una gomma americana.
Ma questi sono i termini – magari sgangherati – di un serio duello geo-politico. In questa epoca di scarso appeal comunicativo, giornali e commentatori avidi di una scossa di adrenalina hanno rispolverato il timore o l’augurio di una “nuova guerra fredda.” Considerato il livello delle reciproche accuse, sarebbe forse più opportuno parlare di “guerra dei bottoni”, con riferimento a un delizioso film da bambini che ci ha appassionato quando eravamo – appunto –bambini.
È un fatto che il fuocherello della nuova guerra fredda si è subito spento, forse per mancanza di combustibile, forse per rispetto dei duellanti, che sono – lo vedete – due attempati signori. Gli insiders spiegano poi i retroscena del violento scambio di accuse. Nel nuovo scenario di multilateralismo, il presidente americano ha voluto mettere in guardia gli alleati europei contro le sirene orientali. In particolare bocciando l’ipotesi del North Stream, il gasdotto tra Russia e Germania: una nuova “via della seta” con cui il Cremlino tenta di spostare verso Ovest le sue pedine della sfida planetaria.
Se questa è la posta in gioco, si capiscono bene le reciproche rudezze. Ma permettete: qui c’è un problema di stile, figlio dei nostri giorni sgangherati. Ai tempi della guerra fredda i messaggi erano ben più essenziali e dignitosi. Per dirne una, i sovietici e i tedeschi dell’Est ci misero una sola notte – tra il 12 e il 13 di agosto del 1961 – a dividere in due la città di Berlino, e senza avvertire nessuno. E quando Jack Kennedy volle contestare l’affronto, il 26 giugno 1963, si spostò personalmente ai piedi del Muro per pronunciare quello che è passato alla storia come l’atto di fede dell’Occidente democratico: Ich bin ein Berliner, “io sono un cittadino di Berlino”.
Ai laudatori del tempo antico, bisogna tuttavia ricordare che anche la guerra fredda fu epoca di “miseria e nobiltà. Per esempio Richard Nixon diede fuori di matto quando – forse stressato dalle lentezze del dialogo est-ovest – minacciò una pioggia di bombe atomiche sulle capitali dell’impero del male, da Mosca a Pechino. L’uscita fu così improvvida e fuor di misura che – nel tentativo di nobilitarla – fior di politoligi americani coniarono quella che ancor oggi nei manuali di scienza politica viene definita la “teoria del pazzo”: the madman theory.
E ancor prima: che dire della rissa che andò in scena nell’austero auditorium del Palazzo di vetro, il 12 ottobre 1960, durante i lavori della quindicesima sessione generale dell’Onu? In quell’occasione, indispettito dalle critiche, l’altrimenti bonario a accomodante Nikita Krusciov perse letteralmente le staffe. Si tolse una scarpa – una robusta scarpa sovietica – e la sbattè ripetutamente sul banco, pronunciando espressioni che gli interpreti simultanei si rifiutarono di tradurre.