Che cosa sta facendo, che cosa ha già fatto il Coronavirus alle nostre relazioni sociali, ai nostri rapporti di vicinato, alla nostre reti di conoscenza e amicizia? Come hanno reagito le nostre strutture amicali e associative all’enorme e prolungato stress della pandemia? Forse è presto per dirlo: il gigantesco esperimento di cui siamo oggetto non ha precedenti storici, e non ha a condurlo nessuno scienziato che sia in grado di tirare le somme. Per rendere dicibile e in qualche modo comprensibile quanto ci avviene facciamo ricorso a tutta una serie di metafore tratte da narrative precedenti di tipo bellico o religioso: si parla confusamente di “guerra”, di “piaga biblica”, di “contagio universale”, impazza una facile e vuota retorica, ma i fenomeni più importanti spesso ci sfuggono, proprio quando li abbiamo sotto gli occhi.
Indipendentemente dal quadro che ci forniscono media costantemente in affanno, la pandemia lavora modificando le nostre società, dalla salute, alla politica, alla economia, alla giustizia. Non si tratta solo dello stress quotidiano che ci spinge a mal sopportare e ad evitare l’affollamento sul bus o in metropolitana, non è unicamente la circospezione con cui compriamo al supermercato, non sono i riti apotropaici di disinfezione cui ci sottoponiamo quotidianamente, ma è una più sottile e sotterranea disaffezione all’altro che ci divora, che provoca il disagio nei luoghi pubblici e il fastidio della promiscuità negli spazi comuni. Distanza, distanza! Mantenere le distanze, come dicevano le fanciulle virtuose in gioventù, stare in guardia, perennemente all’erta e sul chi va là. Guardiamo con sospetto e stigmatizziamo i gruppetti di covid-boys che si “assembrano” in strada, parliamo con esecrazione di party e festeggiamenti privati, ormai pressoché equiparati a rave selvaggi…
A ben vedere non si tratta di una novità assoluta: era stato già da tempo profetizzato che il tramonto delle solidarietà di classe nelle città e l’affermarsi di nuove condizioni di vita, di lavoro e di comunicazione avrebbero dato luogo a una situazione da fantascienza alla James Ballard, col prospettarsi di una sorta di strisciante “guerra civile molecolare” di tutti contro tutti.
Il “vicinato postmoderno” su cui si erano soffermati i sociologi, sottolineandone le componenti individualistiche e “insulari”, l’aggressività passiva, ma efficace nell’escludere, la selettività operante secondo i principi della “distinzione sociale” pare dunque dispiegarsi pienamente, e vede intensificarsi grazie al Covid-19 i suoi aspetti più inquietanti e discriminatori.
Non resterebbe quindi che constatare malinconicamente l’erosione delle relazioni di vicinato, dovuta sia al mutare della composizione sociale dei quartieri, sia al respiro globale dei contatti di cui ogni singolo è al centro, legato alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie. Chi ha migliaia di amici su Facebook parrebbe non necessitare di contatti reali, chi compra su Amazon e si fa arrivare il cibo a casa può certo snobbare le quattro chiacchiere nel negozio di quartiere. Troverebbe così una estrema conferma la diagnosi dei sociologi, orientata alla denuncia dell’affievolirsi senza possibilità di ritorno dei comportamenti solidali, e al tempo stesso della crescente difficoltà di istituire reti sociali localmente radicate. Su queste condizioni generali di partenza il virus si è certo facilmente innestato inasprendo gli egoismi e stimolando il ripiegamento sul motto “my home is my castle”.
Sorprendentemente però tra i portati della pandemia non c’è stata solo la ritirata estrema nel privato, ma anche il riaffiorare di un mai del tutto cancellato “principio vicinato”, fatto di aiuto in caso di necessità, di socializzazione, di custodia e protezione reciproca e di uso comune degli spazi, di cauta riscoperta del negozietto sotto casa. Improvvisamente si sono ritrovate solidarietà vecchie e ne sono nate di nuove. È cominciato tutto con gli applausi e le canzoni, le bandiere alle finestre (non solo nazionalismo! A lungo nel mio quartiere sventolavano orgogliose le bandiere dello Zambia, dell’Albania, dell’Ecuador…), ed è proseguito, lì dove permanevano reti sociali, con l’organizzazione di momenti di mutuo appoggio, dal cucinare a turno per l’intero condominio, fino al fare la spesa per chi era in difficoltà, e all’andare a prendere i farmaci per chi non si poteva muovere. E il fenomeno è stato più o meno rilevante a seconda della composizione e del “clima” dei quartieri, ma è stato sicuramente trasversale in tutto il paese e presente in tutta Europa. Episodi importanti di mutualismo che hanno in alcuni casi generato addirittura un nuovo associazionismo, di cui bisognerà valutare la capacità di tenuta nel tempo.
È come se il Covid avesse permesso di esprimere un potenziale che giaceva inutilizzato, portando alla ribalta da un lato le necessità elementari, dall’altro modificando alcuni comportamenti. Certo forse è troppo romanticamente rivoluzionario pensare che questi comportamenti si siano modificati in maniera durevole, e che la pandemia abbia mutato stabilmente in meglio la nostra maniera di vivere. È facile invece immaginare che a mano a mano che la minaccia che grava su di tutti si andrà attenuando, ci sarà un ritorno ai modelli di relazione precedenti, che derivano dalla struttura profonda delle nostre società: in fondo l’eccezione del mutualismo, dell’altruismo e della solidarietà ci mostra quale è la norma, fatta di egoismo, ripiegamento individuale, competizione e opportunismo. Rimane però questa constatazione: nel momento del bisogno il luogo in cui viviamo può rivelare risorse inaspettate…forse anche negli angoli più dimenticati delle metropoli non siamo poi così soli…