Nel 2017 si era andati molto vicini a una legge sullo “ius soli”. Ma alla fine il provvedimento rimase nel gargarozzo della legislatura. Chi ne impedì l’approvazione in parlamento? La destra fascioleghista, naturalmente, con i “liberali alle vongole” berlusconiani, e con i grillini al momento ancora sovranisti – ma non solo. Paolo Gentiloni, che era il presidente del Consiglio, non seppe dimostrarsi granché gentile con i figli degli immigrati costretti oggi ad aspettare i diciotto anni, e a superare una serie di complicazioni burocratiche, per ottenere la cittadinanza italiana. Avrebbe potuto infatti porre la questione di fiducia, mettendo la propria riluttante maggioranza di fronte a un “aut aut”, ma preferì non rischiare, forse anche nella segreta speranza di poter succedere a se stesso se le elezioni che si tennero nel marzo 2018 non avessero avuto l’esito che ebbero. Del resto la maggioranza renziana del Partito democratico (il “partito sbagliato”, come lo ha stigmatizzato Antonio Floridia nel titolo di un suo libro) e la piccola galassia centrista che sostenevano il governo Gentiloni furono ben contente di potersene lavare le mani, pur dicendosi in astratto d’accordo con il provvedimento.
Ora Enrico Letta – e, prima di lui, Maurizio Landini nel colloquio con Draghi per la formazione del governo – bene hanno fatto a rilanciare il tema, pur sapendo che in questo parlamento una maggioranza per lo “ius soli” probabilmente non c’è (sebbene resti da vedere come si posizionerebbero oggi i 5 Stelle). Inoltre Draghi, con la sua eteroclita maggioranza, sta lì per occuparsi dei soldi (magari pure di qualche piccolo condono fiscale, come si è visto), non certo di importanti questioni di principio.
Lo “ius soli” è appunto una di queste. Per dei socialisti quali noi ci definiamo, riveste un carattere addirittura dirimente. Non sarebbe soltanto una conquista di civiltà riguardante i diritti di cittadinanza in generale; lo “ius soli” è una premessa affinché si possa iniziare a prendere le misure di che cosa potrebbero essere, domani, movimenti di lotta sociale democraticamente dispiegata, che abbiano come loro componente non secondaria i figli degli immigrati. I diseredati di ieri che diventano, cioè, i cittadini attivi di domani.
La socialdemocrazia del passato (per non parlare dei paesi del “socialismo reale”) si fondava sullo Stato-nazione, che in definitiva era lo Stato di una relativa purezza etnica. Perfino la dominazione coloniale, con il surplus che realizzava a danno dei più poveri, era funzionale a una ridistribuzione del reddito nella metropoli europea. Tutto questo avveniva con la collaborazione di un proletariato industriale che votava in maggioranza per i partiti operai. Già negli anni Sessanta del Novecento, tuttavia, la rivolta del mondo colonizzato aveva messo in questione questo modello occidental-centrico. Viviamo oggi però le conseguenze di una decolonizzazione mai del tutto riuscita, cacciatasi rapidamente in nuovi dispotismi e finita, in larga misura, nel caos o nel jihadismo internazionale. Quello che un tempo era il Terzo mondo l’abbiamo in casa: è già qui tra noi. Dinanzi al processo di trasformazione storica inarrestabile dato dall’immigrazione, e dinanzi alla quasi impossibilità di politiche sociali limitate a uno Stato-nazione sempre meno in linea con i tempi, una chance è offerta dalla ricerca utopicamente concreta di nuovi diritti di cittadinanza entro entità statali sempre più integrate in maniera sovranazionale. È l’idea di un’Europa sociale – di quello che l’Unione europea potrebbe diventare, non di ciò che miseramente è stata negli scorsi anni.
Restare chiusi nella difesa di una sorta di purezza etnica – perché questo è di fatto l’attuale “ius sanguinis” italiano, con tutto il suo osceno richiamo al “sangue” – sarebbe come voler difendere, sull’ultimo bastione, quell’arnese del passato che è lo Stato-nazione. Il mondo di domani non conoscerà più una ridistribuzione del reddito ai danni dei più poveri, come in parte fu la “socialdemocrazia reale”. Ciò anche perché l’integrazione dei processi economici a livello mondiale rende pressoché impossibile la ripresa di quel discorso ridistributivo entro gli angusti confini nazionali. Il socialismo del futuro, se ve ne sarà uno, sarà perciò una specie di esperanto, una lingua da costruire in modo artificiale mediante il graduale superamento delle differenti appartenenze culturali all’interno di una cittadinanza aperta e allargata. Lo “ius soli” è parte di questa scommessa.