Come nella tragedia del Macbeth, la pandemia planetaria è oggi il “fantasma di Banquo” che siede minaccioso alla tavola di tutti i paesi latinoamericani. Dal minuscolo e dimenticato Paraguay al gigante brasiliano, l’agenda politica di governi e opposizioni subisce una torsione imprevista e drammatica. Il destino di presidenti e ministri, di interi partiti, si intreccia con i bollettini quotidiani dei morti e dei vivi, dei ricoverati e dei contagiati. Cronaca dal Paraguay: per le strade di Asunción la folla esasperata affronta la polizia al grido “que se vayan todos” e chiede la destituzione del presidente Mario Abdo Benitez, che solo qualche mese fa assicurava la vittoria contro il virus “con l’aiuto di Dio” e che oggi, a dispetto dei santi, si trova a combattere a mani nude con una ridicola scorta di appena ventimila vaccini cinesi elemosinati dal Cile. Il capo dello Stato – già sotto accusa per corruzione – ha sacrificato il ministro della salute, Julio Mazzoleni, appena sfiduciato dal parlamento. Nel paese l’epidemia si allarga a macchia d’olio e le autorità si arrendono, invitando la popolazione a evitare la corsa agli ospedali: “È l’unica soluzione – confessa il portavoce del ministero – che può salvarci dal crollo dell’assistenza sanitaria”.
Il piccolo Paraguay, che tra pochi mesi dovrebbe andare alle elezioni amministrative, non fa nemmeno notizia, ma fa notizia invece il suo ingombrante vicino del nord, oltre le terre del Chaco, dove il tracollo economico e sanitario assume le dimensioni di una tragedia epocale. Il Brasile di Bolsonaro ha appena toccato la vetta di 2841 morti al giorno, proprio nelle ore in cui il presidente negazionista – per la prima volta armato di mascherina – presenta il quarto ministro della salute dall’inizio della pandemia. Via un generale, avanti un medico. Ma ci vorrebbe un mago o un esorcista, per invertire la rotta della politica dissennata e criminale che ha portato il grande Paese a contare oltre 280mila morti e quasi dodici milioni di contagiati, mentre la variante brasiliana muove dal suo bacino di incubazione dell’Amazzonia e aggredisce il Brasile delle città e delle megalopoli.
Altro che virus! Oggi il presidente incoronato dalla destra populista e sovranista deve affrontare una minaccia politica e personale molto più aggressiva della pandemia. Per la serie “a volte ritornano”, ecco di nuovo sulla scena l’antica icona della sinistra brasiliana: l’ex presidente Lula Da Silva, che per i suoi guai giudiziari sembrava ormai condannato all’eclisse e alla damnatio memoriae e che invece a 75 anni è stato restituito alla vita civile e ai suoi diritti di cittadino dalla decisione di un giudice della Corte suprema. “Lula è in campo per le elezioni presidenziali del 2022”, scrivono i giornali brasiliani, anticipando una decisione che non è ancora stata formalizzata. Ma tutti sanno che nel campo della sinistra il vecchio leone è l’unico competitor che potrebbe sconfiggere il presidente in carica.
Ecco qui l’intreccio della politica con la “variante” della pandemia. Con il suo approccio dissennato e ondivago, Bolsonaro ha consegnato il Paese al virus, ma per mesi ha sostenuto il suo rating personale con una politica assistenzialista e di sostegno economico per oltre sessanta milioni di brasiliani che fino a ieri ha fruttato in termini di consenso politico. Fino a pochi mesi fa le intenzioni di voto a favore del presidente oscillavano oltre il 35%, oggi però sono in calo al 28%. Se dobbiamo credere ai sondaggi, oggi Lula potrebbe vincere la sfida. Ma il vecchio leone conosce la politica, e conosce soprattutto le debolezze e le incognite di una sinistra brasiliana che in questi anni – orfana del suo leader – non ha saputo trovare né personaggi né ispirazioni ideali degne di competere con l’avversario. Anche per questo alcune fonti affermano che i suoi uomini starebbero lavorando per costruire un nuovo profilo “centrista” del Partito dei lavoratori (Pt), capace di trarre il partito fuori dalle secche della minorità politica. E Lula sa che le prossime elezioni presidenziali – che sembrano imminenti – sono invece molto lontane. Il doloroso imperio della pandemia può trasformare la corsa verso l’appuntamento del 2022 in una impervia traversata del deserto. Non a caso il primo intervento pubblico dell’ex presidente si è risolto in una semplice e vigorosa raccomandazione: “vaccinatevi!”
In Bolivia la normalità è ancora lontana, sia dal punto di vista sanitario sia nei labirinti del confronto politico. La seconda ondata del virus – il rebrote – è tornata a colpire duramente campagne e città. Per far fronte all’impatto, il governo di Luís Arce ha comprato oltre cinque milioni di dosi del vaccino russo Sputnik, che potranno immunizzare meno di tre milioni di persone, pari al 23% della popolazione. Poche, troppo poche, rispetto alle necessità di una comunità molto esposta, di estrema povertà, dove le precauzioni sanitarie e il distanziamento sociale non sono vie umanamente percorribili. Intanto l’opposizione di destra incalza: in parlamento e nel Paese accusa il governo di corruzione e denuncia che la clausola di confidenzialità, inserita nel contratto di acquisto con i russi, equivale a un “segreto di Stato” che tiene coperto il prezzo del vaccino.
Ma un rebrote tutto politico – un nuovo focolaio nel duro confronto politico – rischia oggi di portare a una nuova stagione di instabilità il debole assetto democratico del Paese, dopo le elezioni contestate dell’ottobre 2019, lo stato di eccezione, la fuga del presidente Evo Morales, gli scontri e il nuovo voto che nel 2020 ha confermato al potere il Mas, Movimento per il socialismo. Con una mossa a sorpresa, la magistratura ha decretato l’arresto della ex presidente ad interim Jeanine Áñez e di due ministri del suo governo, con l’accusa gravissima di “sedizione, terrorismo e cospirazione”. In una offensiva a largo raggio, il ministero della Giustizia chiama in causa anche il segretario generale dell’Organizzazione degli Stati latinoamericani Luís Almagro per il ruolo svolto nella crisi dell’ottobre. Queste mosse appaiono a tutti gli effetti una rischiosa resa dei conti giudiziaria, in un momento in cui il Paese avrebbe invece bisogno di moderazione e collaborazione.
Torna purtroppo di attualità una recente indagine di Human Rights Watch nel Paese, che parla di “giustizia come arma” e denuncia la continua strumentalizzazione politica delle vicende giudiziarie, sia da parte della destra sia da quella della sinistra boliviana. Ieri il presidente Morales fu imputato di “terrorismo” e messo al bando, oggi i suoi avversari sono accusati dello stesso crimine, e vengono trascinati in prigione. Si riaccende dunque il fuoco dello scontro, che sembrava sedato dopo la vittoria netta del partito di Morales (ma orfano di Morales) nelle recenti elezioni del 2020. In cella, Jeanine Áñez rifiuta il giudizio e accusa i giudici di abuso, mentre la destra torna a minacciare proteste in parlamento e manifestazioni di strada. Di nuovo, uno scontro da guerra civile. Più vendetta che politica, mentre da più parti si legge la stretta giudiziaria come una risposta incauta e avventata all’esito delle recenti elezioni municipali, che ha segnato una brusca frenata da parte del Mas, il partito oficialista. I risultati del voto non sono ancora vidimati, ma tutto lascia prevedere che il partito del presidente Arce risulterà minoritario nei centri decisivi del Paese: La Paz, Santa Cruz e Cochabamba. Ancora più cocente la prevedibile sconfitta a El Alto, il brulicante sobborgo della capitale, vero centro economico e commerciale del Paese, dove si afferma con una sua lista indipendente la ex presidente del Senato, Eva Copa, recentemente espulsa dal partito.
La vicenda boliviana può essere infine interpretata come un vero caso di scuola intorno a quella tendenza che il giornalista Alfredo Luís Somoza chiama il “logoramento della democrazia in America latina”. Cioè la difficile – spesso impossibile – convivenza tra i poteri. La tradizione populista e caudillista,da cui derivano le claudicanti democrazie del continente, rende fragile ed esposta a veri e propri espropri l’autonomia della magistratura, e la storia recente è piena di presidenti eletti – da Morales in Bolivia a Ortega in Nicaragua, a Maduro in Venezuela – che modellano i vertici del potere giudiziario secondo le proprie convenienze politiche. Più in generale, “il caudillismo, il populismo, la corruzione, l’esasperazione della lotta politica minano l’equilibrio democratico e alimentano la guerriglia tra i poteri”. È l’eterno e mai risolto problema della “qualità democratica”.
I lontani anni Ottanta, nell’America latina piagata dalla crisi economica, passarono alla storia come la decada perdida, il decennio perduto. In economia, come in politica, la risalita fu faticosa, irta di compromessi e pagata con il prezzo di vere e proprie tragedie sociali. Oggi che il morbo proietta la sua ombra minacciosa sull’intero pianeta, il continente latinoamericano si trova ancora esposto e in qualche modo indifeso. Il ritorno dei venti di crisi istituzionale in Bolivia è solo la punta di lancia della condizione precaria di una grande comunità di Stati che si porta dietro la pesante zavorra di questioni non risolte, di straordinarie miserie e di impunita corruzione, di tentazioni dittatoriali, di logoranti lacerti ideologici. Dal Venezuela svuotato dalla bancarotta economica e politica, al Perù delle crisi istituzionali senza fine, al Cile attraversato dalla protesta popolare, alla Colombia, non ancora pacificata, all’Argentina dell’ennesima scommessa peronista. La frustata della pandemia – che non risparmia nessuno e spalanca ancora di più il fossato tra generazioni, classi sociali e ceti economici – rischia di aprire le porte a una nuova, ancor più lacerante e dolorosa, decada perdida.