Enrico Letta fa simpatia. Ha l’aria del bravo ragazzo studioso. Non è naturalmente antipatico come Matteo Renzi, con quell’aria da saputello. Non lascia indifferenti come Nicola Zingaretti, che ha i limiti e i pregi del pollo di batteria cresciuto nell’apparato di partito con bisogno di suggeritore (Goffredo Bettini). Letta è colto, e pure simpatico (le sue apparizioni a Propaganda Live su “la7”). Anche quando è stato ministro e premier non si ricordano episodi particolarmente sgradevoli (non si può tuttavia dimenticare che nel suo governo del 2013 c’erano anche i berlusconiani).
Pure il suo discorso di investitura la settimana scorsa era ben ritagliato sul personaggio. Il meglio della cultura cristiano-sociale in un’oretta, si potrebbe dire: valori (ius soli) e forse utopia (il voto ai sedicenni), democrazia economica, sguardo all’Europa, al mondo delle trasformazioni in digitale e in riconversione ecologica, lotta alla pandemia, rinnovamento delle categorie di riferimento, attenzione alla solidarietà contro le diseguaglianze e al dialogo con sindacati e parti sociali. Poco laburismo, certo: quello non appartiene alla sua cultura. Nella parte più politica del discorso, Letta ha citato l’Ulivo come unica esperienza in grado di far vincere nel passato due volte il centrosinistra (entrambe con Romano Prodi). Poi ha parlato di “nuovo Pd” e non di semplice “nuovo segretario”. Non ha fatto dei soli 5 Stelle l’interlocutore di una futura coalizione. Vuole confrontarsi con tutti gli alleati potenziali.
Le attese non sono state tradite, a meno di non avere l’idea di un Letta “salvatore della patria”: ha delineato comunque una marcia in più rispetto al Pd di Zingaretti (“Dobbiamo essere progressisti nei valori, riformisti nel metodo e avere la radicalità nei comportamenti”). Non c’era da attendersi nient’altro. Il risultato finale dell’assemblea piddina è stato all’insegna di un unanimismo che non corrisponde alla verità della guerriglia tra correnti in atto da tempo: su 866 votanti elettronici, 862 hanno scelto il neosegretario, 2 non lo hanno votato e 4 si sono astenuti.
Ma un conto sono il personaggio e lo stile culturale Letta, un altro lo stato dell’arte del Pd e un altro ancora il programma in grado di invertire la tendenza che dà, nei sondaggi, il primato alla destra. Per un giudizio meditato, bisogna attendere di conoscere il gruppo di lavoro che Letta sceglierà intorno a sé nel tentativo di fondare per l’ennesima volta il Pd (è l’ottavo segretario dal 2007). Intanto, gli sono giunti gli apprezzamenti di coloro che si candidano a far parte di una nuova coalizione di centrosinistra: dall’ex premier Conte a Fratoianni, Casarini (Sinistra italiana) e Bersani (Articolo uno), dai Verdi ai centristi di Calenda e ai “nemici” di Italia viva. Tutti vogliono salire sul nuovo carro che si mette in marcia. Una overdose di unanimismo, anche se è bene che Letta non abbia parlato di “vocazione maggioritaria” come stella polare e non abbia aperto la porta del rapporto privilegiato solo ai grillini (ancora non si sa quale sarà l’esito della loro crisi insieme al progetto di rilancio a cui sta lavorando Conte nelle vesti di “capo politico”).
Nell’immediato, si sa che il neosegretario ha in mente una nuova legge elettorale che ripropone il mix tra maggioritario e proporzionale in modo da incentivare alleanze e autonomia allo stesso tempo (ricordate le norme della legge Mattarella: 75 per cento di maggioritario, 25 per cento di proporzionale?) e ha stilato un documento per i circoli piddini che presto sarà reso pubblico in modo da realizzare la sua idea di Agorà, la “piazza” per avvicinare il partito ai suoi iscritti e simpatizzanti/elettori.
Per fortuna, le dichiarazioni di guerra sono venute da destra. Salvini e Meloni si mettono di traverso all’idea di ius soli fino al punto di affermare che insistere sul tema equivarrebbe a mettere in crisi il governo Draghi. Sapere che sui valori si può riaccendere un conflitto è un’ipotesi incoraggiante.