All’inizio del Novecento John D. Rockfeller, il magnate del petrolio e capostipite della famiglia, aveva un reddito personale superiore a quello del bilancio degli Stati Uniti. E con lui molti dei robber barons “i baroni rapinatori” del tempo, i J.P. Morgan, William Hearst, Andrew Mellon, Andrew Carnegie e tanti altri. Poi, di fronte alla miseria delle decine di milioni di nuovi immigrati, iniziò la Progressive Era di Theodor Roosevelt che in qualche misura modificò la situazione in direzione di una maggiore giustizia sociale. Negli anni Venti il pendolo oscillò di nuovo a favore dei ricchi e dei ricchissimi; poi venne la grande depressione, la guerra e negli anni Quaranta, per un trentennio circa, le riforme sociali di Franklin Delano Roosevelt. A partire dagli anni Ottanta, e per i successivi quaranta con Ronald Reagan, iniziò la marcia indietro dell’uguaglianza: meno tasse per i ricchi, meno intervento pubblico, meno assistenza ai bisognosi, meno sanità, riportando i tassi di disuguaglianza ai livelli dei ruggenti anni Venti con l’1% della popolazione che detiene il 50% della ricchezza e lo 0,1% che ne detiene il 20%.
Da ultimo, nel 2017, è arrivata la riforma fiscale di Donald Trump che ha distribuito miliardi di dollari alle grandi imprese e ai ricchissimi. Il risultato è stato alta occupazione e salari bassissimi che spesso non consentono alle famiglie di comprarsi da mangiare o di pagare l’affitto. Poi è arrivata la pandemia che ha inasprito le condizioni dei poveri e arricchito ulteriormente le grandi imprese legate a Internet come Amazon e Google, consentendo ai benestanti di mantenere o accrescere i propri livelli di ricchezza.
Ora, con la presidenza di Joe Biden, sembra (si spera) che il pendolo oscilli di nuovo verso la giustizia sociale, anche se la strada sarà molto lunga prima di raggiungere i livelli di uguaglianza degli anni Sessanta. Il Rescue Plan, approvato dal Senato e poi dalla Camera dei rappresentanti, che in settimana dovrebbe essere firmato da Biden, è davvero imponente e senza precedenti nella storia dell’intervento pubblico nell’economia. Intanto per le dimensioni: 1900 miliardi di dollari in cifra assoluta sono più del doppio del Recovery Plan europeo (910 miliardi di dollari), con un esborso medio pro capite di circa 5700 dollari per gli americani e 2000 dollari per gli europei. Poi per la qualità e la direzione della spesa. Il piano americano prevede meno della metà del totale per interventi contro la pandemia (vaccini, ospedali, ricerca). La maggior parte degli stanziamenti andranno in aiuti diretti alla popolazione più povera (fino a 35.000 dollari di reddito annuo) sotto forma di esborsi diretti che vanno dai 5000 ai 12.000 dollari a famiglia, oltre ai sussidi di disoccupazione, ai buoni per l’acquisto di generi alimentari, al sostegno per gli affitti, all’ampliamento dei servizi sanitari e agli aiuti per i costi dell’istruzione.
La filosofia dell’intervento rovescia completamente quella dei quarant’anni precedenti, sia delle amministrazioni repubblicane sia di quelle democratiche, tutte ossessionate dall’equilibrio di bilancio e dalla cosiddetta “responsabilità fiscale”. Era la filosofia del top-down, secondo la quale tagliando le tasse in alto si stimolavano gli investimenti che avrebbero aumentato la produzione e conseguentemente la ricchezza; questa, dall’alto, sarebbe scesa in basso producendo più occupazione, più consumi, maggior benessere per tutti. Dopo decenni di ossessiva applicazione, la ricetta, con tutta evidenza, non ha funzionato: ha prodotto sì piena occupazione, bassissima inflazione, e un vigoroso mercato azionario (con immensi ricavi di borsa), ma anche bassi salari, crescente povertà ed emarginazione, e, per mancanza di investimenti pubblici, un degrado generale delle infrastrutture del paese, del sistema educativo e sanitario.
Il Rescue Plan di Biden va nella direzione opposta. Accantonata l’ossessione per il pareggio di bilancio che ha animato le battaglie politiche degli ultimi decenni (in America come in Europa), la spesa è tutta in deficit, anche se la progettata riforma fiscale dovrebbe in parte compensarla. Al contrario di quella di Trump si ispira alla filosofia del bottom-up, dal basso verso l’alto: dare soldi, crediti fiscali e servizi alla persona (scuola, sanità) ai redditi più bassi perché li spendano per i beni di prima necessità cui hanno dovuto rinunciare, aumentando i consumi e stimolando così verso l’alto gli investimenti e la crescita economica. Gli aiuti andrebbero solo alle fasce più basse di reddito perché i ceti medio-alti, che non hanno sofferto nella pandemia, hanno un alto tasso di risparmio e non li spenderebbero.
Queste le considerazioni macroeconomiche che, secondo il centro studi di J.P.Morgan, dovrebbero ridurre sensibilmente la povertà e stimolare l’economia nei prossimi anni, anche se rimane il timore che l’iniezione di così ingenti flussi di denaro possa provocare un aumento dell’inflazione. Ma naturalmente l’amministrazione Biden non si è mossa unicamente sulla base di considerazioni macroeconomiche. Non siamo solo di fronte al rovesciamento (temporaneo?) del mantra dell’equilibrio di bilancio, del “meno governo è bello” e di “il governo non è la soluzione, è il problema” iniziato nell’era Reagan. C’è soprattutto, nella nuova politica bideniana, un cambiamento di atteggiamento nei confronti della società, diciamo pure del popolo americano. Se lo slogan precedente, connaturato alla cultura americana, era quello della responsabilità individuale, dell’aiutarsi da soli perché a chi si impegna tutto è possibile – il successo, la ricchezza, la realizzazione del sogno americano –, ci si rende ora (finalmente!) conto che è uno slogan vuoto, una ideologia, una visione del mondo che offusca la realtà di ingiustizia e di discriminazione da sempre anch’essa pervasiva nella cultura americana.
Gli estremi di Trump, di razzismo e di disuguaglianza, di esaltazione della ricchezza smodata e di disprezzo per i meno fortunati, hanno portato a questa ultima oscillazione del pendolo. Ci si rende evidentemente conto che razzismo, povertà, discriminazione etnica e di genere, non sono mali temporanei destinati a estinguersi gradualmente. Per sanarli bisogna fare prevalere quegli altri valori propri della società americana: solidarietà, rispetto per la diversità, giustizia sociale come opportunità. E a farlo non può che essere il governo – questa volta sì dall’alto –, mettendo in primo piano questi valori contro i disvalori trumpiani.
Come ha detto Biden nei giorni successivi all’attacco al Campidoglio: “Le parole di un presidente contano. Se sono buone possono essere fonte di ispirazione, se sono cattive di incitamento alla violenza”. Con le sue parole, e ora con questo Rescue Plan, Biden ha dato motivo di ispirazione e di speranza a molti milioni di americani.