A volte la politica procede per salti. Dopo la crisi del governo Conte, sono implose due crisi: nel Pd e nei 5 Stelle. Sono parallele, incubate da tempo, e tuttavia s’intersecano perché i due poli poggiavano le proprie prospettive su un’alleanza politico-elettorale con cui guardare alla competizione con la destra.
Il terremoto avviato da Matteo Renzi nel facilitare la formazione del governo Draghi ha costretto Pd e grillini a collocazioni innaturali in un governo di “quasi tutti” con la costrizione imposta da pandemia, scadenze del recovery plan e secche parole del presidente Mattarella sulla situazione italiana, come al solito emergenziale. Sono precipitati – in entrambe le forze politiche – latenti problemi di identità, organizzazione, prospettiva. Il Pd si è trovato improvvisamente senza testa, cioè leader, a causa di giochetti e veti tra correnti che hanno portato alle dimissioni di Zingaretti. I 5 Stelle sono entrati a loro volta in un clima da prescissione (deputati e senatori che non hanno votato il governo, i dissensi sul ruolo della piattaforma Rousseau). Giuseppe Conte è stato così costretto (sponsor Beppe Grillo) ad accettare il ruolo di leader grillino, di cui tuttavia non si conoscono ancora i programmi politici improntati comunque agli ottimi rapporti con il Pd.
Una fase politica si è dunque chiusa. Da qui l’illusione sbagliata che tutto possa continuare come se nulla sia accaduto. Il Pd, in quanto a progetto e consenso, è al minimo storico. I grillini hanno esaurito il periodo deconstruens e populista per diventare troppo in fretta “moderati e liberali”, oltre che “di governo”, secondo le definizioni di Luigi Di Maio. In tale quadro, il tema è diventato ormai come si ricostruisce il campo di una coalizione alternativa alla destra, non come sopravvivono in continuità grillini e piddini.
Per fare un esempio, la vera sfida politica nel Pd per evitare soluzioni congiunturali sarebbe quella tra Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia Romagna, e Giuseppe Provenzano, ex ministro per il Sud, espressioni di due opzioni distinte: il primo di un “partito degli amministratori” che guarda al “centro” e a una relazione da ritrovare con Renzi & company, il secondo di una forza che mostra interesse a ritrovare la sinistra perduta (Bersani & company) e un programma di contenuti, di alleanze con i grillini, scontando il tempo necessario alla ricostruzione di un futuro centrosinistra. Quella tra Bonaccini e Provenzano sarebbe una vera competizione politica, seppure con tutti i rischi dei discorsi di verità.
Politicamente pigra è invece la scelta che può portare Enrico Letta, attuale presidente dell’Istituto Jacques Delors a Parigi, alla segreteria del Pd nell’assemblea del partito di sabato prossimo. Pigra perché rinvierebbe tutto alla prossima volta, alle prossime dimissioni. Sarebbe inoltre il punto di mediazione, non di svolta, tra le diverse correnti e correntine piddine (quella degli ex Margherita, con i ministri Franceschini e Guerini in testa che sono grandi elettori di una mediazione intorno a Letta). Di facciata sarebbe pure la scelta di Roberta Pinotti o Anna Finocchiaro, che porterebbe come contropartita finalmente una donna alla guida del Pd.
Niente da dire però sul curriculum invidiabile di Letta. Tra i fondatori del Pd, ex Dc ed ex Margherita, più volte ministro e sottosegretario dal 1999 al 2001, eurodeputato dal 2004 al 2006, vicesegretario piddino dal 2009 al 2013, presidente del Consiglio dal 28 aprile 2013 al 22 febbraio 2014. Scalzato in quest’ultimo ruolo da Renzi con un voto nella direzione del partito pure da parte di molti che ora lo vorrebbero segretario (indimenticabile la foto in cui non rivolge lo sguardo verso Renzi nel momento del tradizionale passaggio di campanello, nella sala del Consiglio dei ministri, tra nuovo ed ex premier). Prima dell’impegno politico, inoltre, un dottorato a Pisa e professore a contratto presso l’Università Carlo Cattaneo e la Scuola superiore Sant’Anna. Niente male per uno nato nel 1966, che ha al suo attivo l’attuale direzione dell’attività di ricerca dell’Arel (il centro economico-sociale fondato da Beniamino Andreatta).
Ma è Letta colui che può ricreare entusiasmo, mobilitazione e quel baricentro politico di cui ha bisogno un soggetto moribondo come il Pd dopo le dimissioni di Zingaretti? Il rischio è di mettere ancora una volta la polvere sotto il tappeto, sperando di poter traghettare il Pd fino al 2023, anno di elezioni politiche e di congresso piddino, risolvendo in zona Cesarini tutte le questioni che gravano su quel partito e sul centrosinistra. Di rinvio in rinvio c’è solo un altro rinvio.
Le due crisi, quella Pd e quella 5 Stelle, che per ora corrono in parallelo, produrranno alla fine il big bang necessario da cui nasceranno novità organizzative, culturali, politiche e di coalizione? Il big bang è inevitabile. Lo si può solo rinviare.