“Sono vere dimissioni, o servono per avere una reinvestitura a furore di popolo piddino?”. “Vuole fare il candidato a sindaco di Roma?”. I commenti immediati all’annuncio che Nicola Zingaretti ha gettato la spugna dal ruolo di segretario del Pd indicano quanto sia inquinato il dibattito politico e pubblico. Il merito non conta. Se un leader dice addirittura “mi vergogno” parlando del proprio partito, non si indaga su cosa abbia portato a quel grido di dolore. Si preferisce parlare di retroscena e tattiche possibili. Un bruttissimo segno della decadenza di partiti e politica.
Zingaretti, da parte sua, per ora si limita a dire che non tornerà indietro nonostante gli appelli di sostenitori e critici finalmente uniti. Bisogna, dunque, prenderlo sul serio, anche se il detto vuole “mai dire mai” quando è in gioco qualcosa di politico. Lo statuto del Pd prevede che ora ci sia un reggente provvisorio (si vocifera che possa essere la senatrice genovese ed ex ministro Roberta Pinotti) fino al Congresso, che poi dovrà eleggere il nuovo segretario. Intanto, il Pd è allo sbando. Caos, è la parola più usata. Ennesimo segretario che salta come un tappo da quando esiste questo partito nato nel 2007: Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi, Martina e ora Zingaretti. Per non parlare di Pds e Ds che hanno preceduto il Pd.
Qualcosa non funziona da tempo. Il progetto di unire insieme ciò che restava dell’Ulivo si è dissolto. Margherita e Ds si sono uniti con l’attaccatutto: niente riferimenti culturali (un po’ Blair, un po’ Clinton, un po’ Obama, un po’ Moro, un po’ Berlinguer), poco progetto, scarso radicamento sociale. Hanno prevalso correnti e correntine con la logica che ha messo nell’angolo il pur volenteroso Zingaretti, stretto tra orfani di Renzi restati come cavalli di Troia nel partito, “giovani turchi” (che strano nome per una corrente che cerca referenti fuori dall’Italia) e malesseri vari.
Non secondario, ovviamente, a dare lo spintone a Zingaretti è stato il nuovo quadro politico con la premiership di Mario Draghi e il governo dove coabitano quasi tutti. Il Pd è senza baricentro. La mossa di Renzi di togliere la fiducia all’esecutivo guidato da Conte ha avuto l’effetto di un terremoto. Crisi dei 5 Stelle (espulsioni di deputati e senatori dissidenti) con dichiarazioni di essere diventati ormai appartenenti a un moderato partito liberale. E ora le convulsioni del Pd (va citata, inoltre, l’implosione di Liberi e uguali). Non resta che augurarsi qualcosa di meglio per quanto riguarda “piano vaccini”, recorey fund e recovery plan.
Al di là delle buone intenzioni sui rapporti futuri tra grillini e piddini di cui garante dovrebbe essere Conte nel suo nuovo incarico di capo politico dei 5 Stelle, in campo non c’è una linea diversa nel Pd. I critici di Zingaretti invocano in alternativa la “vocazione maggioritaria” di veltroniana memoria, che poi significa l’illusione di fare da soli o di guardare solo al centro dello schieramento politico (con che legge elettorale neppure si sa). I critici di sinistra, che sono restati assai pochi nel partito (Cuperlo, Orlando, Provenzano), sono invece balbettanti: serve o non serve voltare pagina al Pd per favorire la nascita di un partito di sinistra a ispirazione socialista ed europea che si allea con altri, compreso il futuro “centro”?
Il Pd si mostra ancora una volta soggetto fragile. Se si prova a toccarlo, si rompe. Se lo si lascia così com’è, muore lentamente limitandosi a essere un polo elettorale meno peggio di altri. La destra intanto naviga a vela, quel che resta della sinistra naviga a vista. Serve, in mancanza di meglio, applicarsi al lavoro su idee, proposte, analisi, narrazioni vincendo il senso di impotenza. Ognuno deve dare un contributo al lavoro di ricostruzione che sarà lungo, forse lunghissimo. O forse no.