“Solo se riusciamo a guardarci tra noi, con le nostre differenze, come membri della stessa famiglia umana, possiamo avviare un effettivo processo di ricostruzione e lasciare alle future generazioni un mondo migliore, più giusto e più umano”. La rivoluzione disarmata di Francesco, che appena giunto a Baghdad si è definito pellegrino e penitente, è cominciata sotto due auspici impensabili.
Non era un’immagine omogenea quella che mostrava Bergoglio tra gli infiniti saloni marmorei nello stile così profondamente fascista del palazzo presidenziale costruito nell’epoca di Saddam Hussein, nella “zona verde” di Baghdad. Ma già lì, in quell’ambiente non certo da mille e una notte ma da “credere, obbedire, combattere”, l’attuale presidente dell’Iraq ha potuto sorprendere tutti auspicando una riflessione comune tra il Vaticano, l’Università di al-Azhar, la più importante istituzione teologica sunnita, e Najaf, la città santa irachena dove ha sede la scuola teologica sciita che domani Francesco visiterà. Un indirizzo, una prospettiva che le potenze militari che usano sunnismo e sciismo per seminare morte e distruzione mai avrebbero potuto pensare che qualcuno ipotizzasse.
Ma proprio in quei minuti, dal Cairo, dove ha sede la prestigiosa università di al-Azhar, giungeva una preghiera di successo e buon viaggio indirizzate al papa che sta per incontrare l’ayatollah al Sistani formulata e twittata dallo sceicco sunnita di al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb. Tutti parlano, per giustificare le guerre politico-energetiche, di odio tra sunniti e sciiiti. E se fosse quello indicato dal presidente iracheno lo sbocco, il punto di arrivo fino ad oggi impensabile, di questo viaggio? Nessuno può dirlo, ma pensarlo adesso è possibile. “Le diversità di cui è pieno questo paese sono una ricchezza, non un ostacolo da abbattere”, ha detto Francesco nel suo indirizzo di saluto, formulato prima di recarsi nella Cattedrale siro-cattolica di Sayedat al-Neyat, devastata dieci anni fa dai terroristi che vi uccisero 48 fedeli tra cui due sacerdoti.
In questa terra che paga tra tante ferite un assorbimento ormai secolare di autoritarismo, fatto anche di simboli ostentati e di status esibito, il papa ha chiesto ai suoi vescovi di “uscire”, di essere “pastori”, di non passare tutto il giorno tra carte e uffici, di assolvere sì ai loro compiti amministrativi, ma di ricordarsi di stare soprattutto accanto alla gente, “al popolo”, servendo nei poveri e negli umili Gesù. Questo è il messaggio socialmente rivoluzionario, nel senso che l’imposizione gerarchica è stata capovolta, i primi sembravano diventati gli ultimi anche in una terra dove l’autoritarismo è stato imposto sull’autorità, figurarsi sull’autorevolezza.
Il secondo messaggio è stato rivolto soprattutto a quell’Occidente che si riempie la bocca dell’espressione “cristiani d’oriente” per eternizzare una storia di “protezione” coloniale usata per giustificare il colonialismo senza il loro consenso e presentarli come una sola “minoranza” in un analogo compatto mare nero di islamici. A noi, senza citarci, il papa ha detto: “Penso all’immagine familiare di un tappeto. Le diverse Chiese presenti in Iraq, ognuna con il suo secolare patrimonio storico, liturgico e spirituale, sono come tanti singoli fili colorati che, intrecciati insieme, compongono un unico bellissimo tappeto.” Dunque ai piedi dell’unico popolo iracheno, antico maestro nell’arte della produzione e commercializzazione dei tappeti, mosaico di fedi e etnie diverse, si stendono tanti tappeti tra cui quello del cristianesimo iracheno, nato ai tempi del monofisismo discriminato dai cristiani bizantini ma ancora ricco di tutti i suoi singoli fili: assiri, caldei, siri, latini, armeni, siriaci, simbolo di una complessità e ricchezza che rispecchia la complessità e ricchezza irachena. Ma non è tutto. Il papa ha avuto la forza e il coraggio di ricordare, in questa cattedrale dove la strage di 48 fedeli è avvenuta solo dieci anni fa e il dolore è ancora vivo, il martirio di quei 48 innocenti, vittime come tutte le vittime, di ogni identità religiosa.
Così il cambiamento di paradigma che il papa della fratellanza porta a tutti gli iracheni per rifare dei cristiani e di tutti gli altri veri cittadini del loro paese, l’Iraq degli iracheni e non dei potentati stranieri, ha già cominciato a sorprendere, creando in molti un senso di ammirazione frastornata che apre la strada alla giornata di domani, la giornata del grande incontro di Ur, nel nome di Abramo, il padre di tutti. Il viaggio che non poteva che essere destinato a porre la fraternità come sfida e alternativa alla violenza e al disprezzo è cominciato mantenendo fede all’attesa.