“Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i paesi nei periodi di recessione”. Questo passaggio del discorso di Mario Draghi, durante la presentazione del suo governo al Senato, è stato molto citato e commentato soprattutto per la prima parte, l’irreversibilità dell’euro: un concetto che, venendo dall’ex presidente della Bce, non dovrebbe sorprendere nessuno, ma che aveva un evidente significato di condizione politica, indirizzata in particolare alla Lega, per la partecipazione al governo.
È rimasta immeritatamente in ombra, invece, la seconda parte: la prefigurazione di “un bilancio pubblico comune” dell’Ue. Un bilancio che dovrà servire, fra l’altro, a “sostenere i paesi nei periodi di recessione”. In altre parole, l’Unione si doterà di uno strumento tipico ed essenziale degli Stati federali, una capacità di bilancio, basata sull’emissione di debito comune, la creazione di un “Tesoro” europeo con cui finanziare interventi di sostegno, riequilibrio e stabilizzazione macroeconomica degli Stati membri. È esattamente la parte mai realizzata dell’Uem, l’Unione economica e monetaria. Un’Unione nata a Maastricht monca (per volontà tedesca) della parte economica, mentre si è sviluppata in senso federale la parte monetaria.
Draghi individua in questo obiettivo il prossimo passo da compiere nel processo d’integrazione europea, di una “unione sempre più stretta” fra i popoli dell’Europa (citazione dal preambolo del Trattato Ue). Non si tratta solo di un’aspirazione, la pandemia di Covid-19 ha creato finalmente le condizioni per realizzare quell’obiettivo entro l’orizzonte dell’attuale legislatura europea.
Il “game changer”, come lo ha chiamato il commissario europeo all’Economia, Paolo Gentiloni, è il piano di “Recovery Next Generation EU”, e in particolare il suo nucleo centrale, lo Strumento per la Ripresa e la Resilienza (Rrf), che comincerà a finanziare in estate, con prestiti e sovvenzioni, le economie degli Stati membri proporzionalmente all’impatto economico che hanno subito dalla pandemia.
Dopo decenni di discussioni inconcludenti sulla possibilità che l’Ue (e in particolare la Commissione) possa indebitarsi sui mercati, cioè in una parola (che però è meglio non pronunciare) emettere eurobond, per finanziare le sue priorità politiche e le misure di stabilizzazione macroeconomica (basta ricordare i dibattiti sulla “capacità di bilancio dell’Eurozona”, sui “sussidi di disoccupazione europei”, sugli stabilizzatori per l’assorbimento degli “shock asimmetrici”, e gli anatemi tedesco-nordici contro gli eurobond), all’improvviso, nel luglio scorso, il Consiglio europeo ha trovato un accordo che, per una volta, è davvero appropriato definire “storico”.
Il debito europeo è oggi una realtà, che si concretizzerà fra pochi mesi con le emissioni di obbligazioni sui mercati da parte della Commissione per 750 miliardi di euro per il “Next Generation EU”, ma che in realtà è già in atto su scala minore (100 miliardi di euro) con un altro strumento creato d’urgenza per rispondere alla crisi pandemica, il meccanismo “Sure” per il sostegno ai sistemi nazionali di cassa integrazione. E si può prevedere che le euro obbligazioni del Ngeu andranno letteralmente a ruba, come è successo per il finanziamento di “Sure”.
Certo, stiamo parlando di strumenti d’emergenza, provvisori e contingenti, e non sta scritto da nessuna parte che debbano essere perennizzati.
Anzi, è previsto chiaramente che il loro campo d’azione temporale si limiti a pochi anni. Appena sarà compiuta la ripresa si tornerà alla normalità, i rubinetti delle sovvenzioni e dei prestiti a interesse zero per gli Stati membri si chiuderanno, l’Ue non emetterà più obbligazioni, e dovrà anzi pagare gli interessi e poi cominciare a rimborsare il debito attraverso il proprio bilancio (finanziato dagli Stati membri) al ritmo di 15 miliardi in più all’anno.
Le circostanze e le dinamiche attuali, tuttavia, vanno tutte in un’altra direzione: piuttosto che azzerare tutto e tornare allo “status quo ante”, sarà molto meno difficile e complicato, oltre che molto più opportuno, rendere permanente lo strumento Ngeu, o una struttura simile che magari ne aggiorni gli obiettivi una volta compiuta la ripresa, puntando sulle transizioni climatica, ambientale e digitale, sulle priorità sociali, sulla funzione di stabilizzazione macroeconomica, sugli investimenti per la crescita.
Sono tre le ragioni principali per cui scommettere sulla istituzionalizzazione permanente del debito comune dell’Unione europea.
1) Come ripete spesso Gentiloni, una volta dimostrato che una soluzione innovativa funziona, anche se inizialmente a carattere temporaneo, è facile poi che si ripeta l’esperienza, come insegna la storia dell’integrazione europea. Qui molto dipenderà da come saranno utilizzati i fondi Ue per la ripresa nei paesi maggiori beneficiari, l’Italia e la Spagna.
2) L’emissione di debito per 850 miliardi di euro ha creato, per la prima volta, un safe asset (investimento finanziario sicuro) dell’Ue denominato in euro, di cui si sentiva un forte bisogno sui mercati; sarebbe davvero paradossale che l’Ue decidesse, dopo pochi anni, di ritirare questo safe asset, non rinnovando il debito al momento delle scadenze dei rimborsi. Ciò costringerebbe gli investitori a rinazionalizzare i propri portafogli (con effetti inevitabili sugli spread) e magari a trasferirli in dollari o in un’altra valuta, a scapito dell’euro e della sua tanto auspicata “proiezione internazionale”.
3) Se il debito comune non venisse rinnovato, gli Stati membri, da sempre restii ad aumentare i propri contributi al bilancio comunitario (proporzionali al Reddito nazionale lordo), si ritroverebbero a dover finanziare 15 miliardi di euro all’anno in più per ripagare interessi e rimborsi, per diversi decenni a venire. Questo non sarà necessario se si compenserà l’aumento dei bisogni finanziari con l’introduzione di nuove “risorse proprie” del bilancio Ue (tasse sulle emissioni di CO2, “carbon tax” alle frontiere, “digital tax”, etc.), che tuttavia per ora sono solo un progetto sulla carta, di non facile attuazione.
Infine, un accenno alla riforma del cosiddetto “Patto di Stabilità e di Crescita”, oggi sospeso grazie all’attivazione della clausola generale di salvaguardia (“General escape clause”). La revisione radicale del complicatissimo dispositivo che costituisce il “semestre europeo” è ormai inevitabile. Il Patto ha funzionato negli anni scorsi come una camicia di forza tecnocratica per imporre le politiche di austerità, risposta sbagliata e controproducente alla crisi finanziaria del 2008 e alla crisi del debito sovrano nell’Eurozona del 2010-2013.
I percorsi a tappe forzate per la riduzione dei deficit pubblici “eccessivi”, basati sul dubbio concetto della “crescita potenziale”, hanno portato a un aumento del debito pubblico in rapporto al Pil negli Stati più colpiti dalla crisi, invece che alla sua diminuzione (che è ricominciata qua e là solo quando, alla fine, è tornata la crescita). E soprattutto hanno depresso gli investimenti pubblici fino ad azzerarli, hanno aumentato, invece di ridurre, le divergenze fra le economie degli Stati membri e hanno alimentato (in Italia in particolare) il senso di lontananza delle istituzioni europee dai veri bisogni delle popolazioni, fomentando i movimenti populisti, nazionalisti ed antieuropei. Il Patto di Stabilità e di Crescita è stato gestito come uno strumento contro la crescita, e contro l’Europa stessa.
Oggi Draghi e Gentiloni parlano di “debito buono”, desiderabile e da sostenere, e “debito cattivo”, da scoraggiare. Il nuovo Patto di Stabilità e di Crescita dovrà tenerne conto, con una golden rule che tratti in modo diverso, e favorevole, i debiti contratti dagli Stati per finanziare riforme e misure che rafforzano la crescita economica. Il 26 febbraio, intervenendo alla Conferenza annuale dello European Fiscal Board, Gentiloni ha parlato della necessità di “uno speciale trattamento per la spesa che rafforza la crescita”, e ha lanciato l’idea di “attivare più spesso la clausola generale di salvaguardia durante le crisi economiche” (qui il discorso, in inglese).
L’Europa sta cambiando. I passi da gigante a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi nella dinamica dell’integrazione europea, insieme all’uscita di scena del Regno Unito dopo la Brexit, hanno riaperto improvvisamente la prospettiva federalistica che, dopo le grandi realizzazioni dell’era di Jacques Delors alla presidenza della Commissione, sembrava relegata all’orizzonte utopico dei “padri fondatori” e al loro momento storico.
La creazione di un bilancio comune degno di questo nome, in termini qualitativi e quantitativi, è uno degli elementi più caratterizzanti degli Stati federali veri e propri: gli Usa hanno oggi un bilancio federale pari al 23% del loro Pil nazionale, il bilancio dell’Ue invece è fermo da decenni all’1% del Pil complessivo degli Stati membri.
Quando il Consiglio europeo di luglio, a sorpresa, ha raggiunto l’accordo sul Recovery Plan dopo quattro giorni e quattro notti di negoziati, diversi osservatori hanno parlato di un “momento hamiltoniano” per l’Ue. A partire dal 1787, Alexander Hamilton fondò il debito federale americano, basato soprattutto su dazi all’importazione (e anche sul whisky). Furono le prime “risorse proprie” del bilancio federale Usa. Grazie soprattutto alla crisi pandemica, l’Unione europea è entrata in una “dinamica hamiltoniana”. Oggi ci sono tutte le premesse perché l’Unione monetaria possa finalmente diventare anche un’unione economica, e il Patto di Stabilità possa essere davvero anche un Patto di Crescita. Ma dipenderà, naturalmente, dalla volontà e dalla lucidità politica e dalla lungimiranza dei leader europei e delle istituzioni comunitarie.