Mentre trasferiva valore alle compagnie digitali, incrementando di quasi il 35 % il valore di Amazon e Apple, e, tanto per fare solo un esempio, faceva di una piccola piattaforma di video meeting come Zoom un impero la cui capitalizzazione supera le prime sette compagnie aeree più grandi del mondo, la pandemia introduceva i germi di una normalizzazione sindacale e normativa, che sta esponendo il modello di business digitale alle più tradizionali forme di conflitto sociale. La disposizione della procura di Milano che impone alle agenzie di consegna e di trasporto, come Uber o la stessa Amazon, di assumere i riders, è solo il punto di passaggio di un processo che sta riclassificando l’eccezionalità digitale.
Punto di svolta, che ha accelerato una tendenza che comunque si stava definendo già prima della diffusione del Covid-19, paradossalmente è stato propria la pandemia. La necessità di finalizzare tutte le risorse, a cominciare dai dati predittivi e dalle piattaforme, al contrasto al contagio ha fatto affiorare l’insofferenza e, in molti casi, l’ostilità nei confronti dei monopoli privati che confiscano questi valori. Il naufragio di Immuni, insieme con tutte le app simili che si sono fidate di Apple e Google, titolari dei due sistemi operativi che controllano il 92 % del mercato mobile, per una evidente subalternità agli interessi proprietari di chi voleva salvaguardare le proprie rendite di posizione, è stato il simbolo di questa arroganza da padrone delle ferriere.
Più in generale, la scienza, di cui le tecnologie sono proiezioni, è diventata nei mesi della prima ondata pandemica, un campo di battaglia in cui hanno fatto irruzione non solo le istituzioni pubbliche, come governi e partiti, ma direttamente le comunità sociali, i singoli cittadini, che hanno chiesto ragione di cosa si poteva e doveva fare per assicurare la sicurezza globale. In particolare, proprio in queste settimane i vaccini sono diventati la bandiera di una più generale domanda di condivisione delle strategie scientifiche che non possono essere affidate ai proprietari di brevetti che ancora sono guidati da interessi puramente speculativi, come le criticità distributive dei farmaci anti-Covid dimostrano.
La potenza di calcolo sta perdendo quella sua aura soprannaturale ed esoterica, e si presenta ormai come un sistema gerarchico asimmetrico, in cui i proprietari hanno accumulato un vantaggio gestionale e competitivo ormai non più sopportabile dal mercato. E meno ancora dalla democrazia.
Prima di Natale si era aperta una voragine proprio nel cuore di Google, il marchio che più aveva lavorato, fin dalla sua fondazione, nel costruirsi una reputazione positiva e democratica con lo slogan Don’t be evil, “non fare il male”. Prima la responsabile della sezione etica della divisione di intelligenza artificiale, Timnit Gebru, fu licenziata per aver avanzato dubbi sulla correttezza degli algoritmi elaborati dal grande motore di ricerca; poi anche la vice di Gebru, Margaret Mitchell, è stata estromessa per le stesse ragioni. Una decisione che ha provocato reazioni massicce sia all’esterno, con una mobilitazione di migliaia di ricercatori e docenti universitari contro il vertice di Google, sia all’interno, con un’agitazione che in poche settimane ha portato alla costituzione di un vero e proprio sindacato: Alphabet Worker Union (AWU), l’organizzazione dei dipendenti del gruppo Alphabet che controlla anche Google. La stessa cosa si sta verificando nel sistema Amazon, che conta ormai circa 250mila addetti in tutto il mondo.
Proprio in Italia, a Piacenza, si registra una delle più avanzate esperienze di lotta sindacale nel pianeta Amazon, con un primo accordo che ha bloccato il controllo digitale che si voleva estendere all’attività di tutti i lavoratori. Ora, con la decisione del tribunale di Milano, altri 60mila lavoratori del pulviscolare sistema della gig economy, quella forma di organizzazione informale che permette alle imprese digitali di avvalersi di prestazioni senza garantire protezione ai dipendenti, stanno diventando soggetto negoziale formale.
Non si tratta di rifare la Federazione lavoratori metalmeccanici, il glorioso sindacato cinquant’anni dopo. La natura e le dinamiche del potere di calcolo non è omologabile a quello del tradizionale sistema industriale meccanico. La condivisione del ruolo soggettivo, persino nelle attività più ripetitive, è enormemente più ampia. Soprattutto l’impatto sociale dei servizi e dei prodotti di intelligenza artificiale è più diffuso e pervasivo, condizionando il modello di vita della stragrande maggioranza della popolazione del pianeta.
I riders non sono Gasparazzo, la figura del mitico operaio massa degli anni Settanta. Sono un anello di una catena lunga e articolata che arriva nelle redazioni, nelle banche, nelle aule giudiziarie, negli ospedali, in cui a comandare è un algoritmo. Non una macchina ma degli esseri umani proprietari del sistema computazionale. Questo è il suo specifico carattere che Paolo Zellini, un grande matematico italiano, nel suo testo La dittatura del calcolo (Adelphi editore), definisce “intimamente autoritario”.
L’obiettivo, che oggi appare più riconoscibile e realizzabile, è quello di mettere in campo un nuovo soggetto negoziale che, come scrivono i dirigenti del sindacato di Google, “usi la nostra competenza di ingegneri o programmatori per rendere la potenza di calcolo trasparente e condivisibile”. Una conquista collettiva in cui la civilizzazione delle prestazioni produttive, del lavoro, diventa una tappa inevitabile, ma non l’obiettivo primario. Su questo si continuerà a discutere avendo come prospettiva unitaria quella di considerare la scienza, il sapere, una macchina sociale: algoritmi e vaccini devono essere beni comuni. Per ragioni di efficienza e insieme di democrazia.