Affrontare concettualmente la pandemia richiede un supplemento di riflessione intorno alla distinzione natura/cultura così come si è configurata da sempre. Non si tratta tanto della questione del “dominio sulla natura”, instaurato fin dalla più profonda antichità (e su cui autori come Adorno e Horkheimer nella loro Dialettica dell’illuminismo hanno scritto pagine memorabili), quanto piuttosto di mettere a fuoco un fenomeno completamente nuovo nella storia dell’umanità, quello che si può definire dell’urbanizzazione del mondo. In breve, la parte di esseri umani che abita nelle città è superiore già oggi al cinquanta per cento della popolazione mondiale, e si prevede che questa quota arriverà nel 2030 al sessanta per cento. In un paese come la Cina, in cui il fenomeno appare particolarmente marcato, si è assistito negli scorsi decenni alla nascita e al moltiplicarsi di agglomerati urbani nell’arco temporale di pochi mesi. Quando si usa il termine “epocale”, per indicare un cambiamento, ci si dimentica di applicarlo a questa vera e propria grande trasformazione che tende a cancellare la stessa classica distinzione tra città e campagna, e – con certezza ancora maggiore – relega le nostre città e metropoli nel museo dei ferri vecchi della storia: perché sono gli informi agglomerati urbani, le megalopoli di milioni di abitanti del ventunesimo secolo, ad avere ormai il sopravvento sul vivere cittadino di origine medievale come quello europeo.
Si può parlare oggi di una megalopoli-mondo (si veda il mio saggio “Diritto alla città nella megalopoli-mondo”, in Una città per tutti, a cura di Alessandra Criconia, editore Donzelli). In essa la ripresa, o il “rientro”, della natura all’interno della cultura è cosa quasi fatta. Mancano le grandi foreste, come quella amazzonica, all’appello della megalopoli-mondo – ma per quanto ancora? Se gli esseri umani vanno concentrandosi sempre più nelle città, la stessa natura, così come siamo stati abituati a conoscerla, cambia il proprio statuto. Essa non è più “quella cosa là” che gli esseri umani hanno appreso nei secoli a fronteggiare; è una parte della stessa megalopoli-mondo: è potenza terrestre all’interno dell’antropocene, cioè trasformata dall’azione degli esseri umani. Si può esprimere tutto questo con una metafora: è come se l’intera forza del pianeta si trovi a essere acciuffata e racchiusa all’interno di un contenitore – inevitabilmente, quindi, pronto a esplodere – che diventa così una parte più grande del tutto di cui è parte.
Eppure dentro la megalopoli-mondo sono in atto processi di emancipazione. Per molti c’è stato l’affrancamento dall’antica fatica del lavoro dei campi: nella campagna trasformata grazie all’automazione sono rimasti soltanto i raccoglitori – di solito immigrati di ultima generazione – a spezzarsi la schiena; e perfino questi, che pure sono messi in una situazione di servitù, sono al tempo stesso “lanciati” verso un’aspirazione al miglioramento delle proprie condizioni di vita (il che spiega il fenomeno, altrimenti inspiegabile, della “servitù volontaria”: mi sacrifico e mi lascio sfruttare oggi nella speranza di un domani migliore). Nel mondo immobile di ieri l’abitante di un villaggio africano non arrivava neppure a concepire, o a sognare, un mutamento della propria forma di vita.
Che cos’è allora il progresso, e che cosa di conseguenza l’emancipazione, nella megalopoli-mondo? Per quanto riguarda la definizione di “progresso” si può ricorrere all’indice dello sviluppo umano, in cui sono compresi indicatori come il livello di alfabetizzazione e, più importante ancora, quello della speranza di vita alla nascita all’interno di una determinata popolazione. Il demografo e sociologo francese Emmanuel Todd previde con alcuni anni di anticipo il crollo del mondo sovietico osservando, nella Russia di quel tempo, un drammatico aumento della mortalità infantile: era un fattore di regresso oggettivo. Solo per differenza da questo, è possibile parlare di un progresso. Non esiste, in altre parole, un progresso indefinito (come quello supposto dall’ideologia produttivistica otto-novecentesca); esiste però la possibilità di misurare “progressi” in relazione a forme di regresso reali o potenziali, come quando si dice, riguardo a un argomento qualsiasi, che “sono stati fatti dei progressi” – al plurale.
Qualcosa di simile può essere detto per quanto riguarda la definizione di “emancipazione”. Rispetto a un’idea vetero-socialista di emancipazione, che si esprimeva nel puro e semplice rovesciamento dei rapporti capitalistici di produzione, la concezione odierna dell’emancipazione non può più essere incentrata su uno sviluppo che renda la vita degli esseri umani, almeno secondo l’intenzione utopica, non meno ricca ma diversamente ricca, come avrebbe detto Riccardo Lombardi, figura storica del socialismo italiano (il quale pure, per parte sua, aveva individuato nella qualità dello sviluppo, non nello sviluppo in sé, la cifra del socialismo). No: al tempo nostro l’emancipazione non può che declinarsi come un processo in sé mai concluso (di tipo asintotico, si potrebbe dire) che tiene insieme, in una tensione e in un compromesso incessanti, la ricerca di una liberazione dal bisogno con una rottura negli usi e costumi della cultura di cui si è parte. Si accresce, in altri termini, il tasso di artificialità proprio del concetto di emancipazione. Seguitando a vedere quest’ultima come la costruzione di un’autonomia individuale – il che in fondo è il suo aspetto “liberale” –, non appare più accettabile, com’è puntualmente avvenuto nella storia del capitalismo e della sua modernità “monca”, una fin troppo conveniente transazione al ribasso con forme culturali ataviche: con l’oppressione patriarcale della donna in vaste aree del pianeta (del resto neppure in Occidente venuta a termine), per esempio, o con un atteggiamento di distacco, quando non di rifiuto, nei confronti dell’ “altro” – qualunque sia questo “altro”. Essere insieme antisemiti e socialisti, per dirne una, come fu possibile nel protosocialismo (e non solo, se si pensa che unicamente all’epoca dell’affaire Dreyfus il socialismo francese ruppe con l’antisemitismo), non sarebbe oggi soltanto una bruttura ma un che d’inconcepibile. Il concetto di emancipazione non potrebbe infatti essere rilanciato se non riaffermando il carattere di costruzione artificiale della società in generale rispetto a qualsiasi vivere in comune incentrato su questa o quella cultura particolare.
Ora, in una situazione in cui progresso ed emancipazione sono concetti sì definibili ma anche soltanto relativamente definibili – come lo è qualcosa di costitutivamente incompiuto –, si fa centrale la nozione di progettualità utopica connessa con quella di futuro aperto. Siamo cioè all’interno di un processo ognora in fieri, di un obiettivo che si muove con noi in un orizzonte indefinito. Il rapporto natura/cultura (in cui la cultura è stata intesa molto spesso, in maniera privilegiata, come la civiltà occidentale) non appare soltanto pluralizzato dal lato della cultura – per cui da tempo si discorre di culture al plurale –, ma a questo punto anche dal lato di una natura ripresa nella megalopoli-mondo come un insieme di frammenti di nature diverse: ci sono gli orti e i giardini urbani, le piante, gli animali, e anche i sassi, i fiumi, i laghi, i mari… Tutte queste nature appaiono tali ciascuna in riferimento al loro destino specifico – ma di volta in volta ricollocato in una progettualità utopica, nell’ipotesi che questa riesca a dispiegarsi in quanto tale. Le piante (che ne sarà delle piante?) esse stesse prese nel processo di emancipazione, vivendo al ritmo della fotosintesi clorofilliana, diventano le nostre compagne di respirazione; gli animali (che ne sarà di loro?) sono da difendere, insieme con il loro habitat, se non vogliamo che i virus di cui sono portatori facciano il “salto di specie” provocando devastanti epidemie; le acque vanno protette come un “bene comune” nient’affatto inesauribile, e così via.
Tutto questo mostra come a poco a poco stia andando fuori corso la distinzione natura/cultura. L’intero universo – lo sappiamo dal secondo principio della termodinamica – rotola verso il caos: l’entropia, in cui si esprime la tendenza di fondo al disordine cosmico, ci accompagna inesorabile in tutto quello che facciamo. Sta a noi cercare se non altro di rallentare questa corsa verso il nulla.
(Testo riveduto della relazione presentata il 18 febbraio scorso nella serie di seminari online su “Il disordine della natura e la via verso un nuovo modello di sviluppo”, a cura della Fondazione per la critica sociale, Legambiente e Crs Toscana.)