Martedì 23 febbraio, fra i titoli della prima pagina del Sole 24 ore, campeggiava la richiesta di una consultazione fra le aziende farmaceutiche italiane per valutare un piano nazionale di produzione dei vaccini. In poche settimane quella che sembrava una sparata isolata, dal vago sapore ideologico, di gruppi politico-culturali marginali è diventata una tecnicalità indispensabile per dare credibilità ed efficacia a un vero piano nazionale di vaccinazioni.
Il nodo che i vaccini hanno in poco tempo reso ineludibile è indistricabilmente figlio della società del sapere, ed era già stato evidenziato dalle prime, per quanto ancora sparute, scaramucce sulla potenza di calcolo: la scienza che oggi è sottesa a ogni attività umana e da cui dipende la nostra stessa sicurezza, come nel caso dei vaccini, può essere governata esclusivamente dal mercato? È una domanda che viene davvero da molto lontano, che sta alla base delle riflessioni che, dopo le ondate positiviste di metà dell’Ottocento, ritroviamo nei primi dibattiti del movimento socialista, grazie alle intuizioni contenute soprattutto nei Grundrisse di Marx, testo che, pur non scritto per la circolazione, aveva contaminato numerosi interventi del Moro.
Ma è nel secondo dopoguerra, quando negli Stati Uniti si affrontò il tema di una competizione sociale e culturale, prima ancora che politica, con il blocco sovietico, che il tema della scienza come ordinatrice sociale, bandiera di una privatizzazione propulsiva, trainante consumi e inclusione sociale, diventa uno spartiacque. Il leggendario saggio di Vannevar Bush, As We May Think, fissava la nuova frontiera dello scontro ideologico: la sostituzione del lavoro con il sapere, per salvaguardare le basi sociali dell’Occidente, deve comportare la privatizzazione metodologica della ricerca finale e, prima ancora, della produzione dei prototipi.
Da qui la corsa a spostare dal pubblico al privato tutte le attività pregiate scientifiche, prima a livello tecnologico, mediante la militarizzazione dell’informatica e delle ricerche sui nuovi materiali, e poi nella chimica e nella farmaceutica: dai farmaci salvavita a quelli integratori e sostitutivi delle inefficienze, come gli enzimi o i protettori cardiaci o epatici, fino ai vaccini. Negli anni Sessanta, sulla scorta della grande campagna di Sabin e Salk sul contrasto alla poliomielite, i vaccini rimanevano un saldo presidio delle strategie di welfare pubblico: in particolare nel nord Europa – dalla Svezia all’Olanda, alla stessa Germania – produzione e distribuzione dei prodotti erano di assoluta pertinenza statale. Poi, negli anni Ottanta, la spallata neoliberista ha demolito questa cultura, che in Italia aveva avuto un solido presidio in quella straordinaria esperienza di Medicina democratica promossa da Giulio Maccacaro insieme con le avanguardie operaie della Federazione lavoratori metalmeccanici.
Ora siamo dinanzi allo scenario tipico di una privatizzazione selvaggia: aziende che ricevono ingenti contributi pubblici (più di venti miliardi fra Stati Uniti ed Europa sono stati stanziati per sostenere lo sprint dei vaccini contro il Covid-19) gestiscono speculativamente la distribuzione di dosi assimilate a prodotti di mercato che vanno dove più alta è l’offerta. Il risultato è quello di una geografia del virus che rimane ancora del tutto scoperta rispetto all’immunizzazione: 130 paesi, del terzo e quarto mondo, non hanno nemmeno una dose in programma nei prossimi mesi. È una strategia di somministrazione che persino nei paesi ricchi procede a singhiozzo, in base al marketing di Moderna, Pfizer e AstraZeneca. Un bilancio che dimostra come solo una gestione pubblica della produzione, presupposto della distribuzione, possa non solo rispondere a elementari principi etici ma essere anche efficiente ed efficace nella strategia di contrasto al virus. E si coglie oggi un’altra ragione che rende indispensabile un controllo pubblico e nazionale sulla ricerca e prototipazione dei farmaci. Come ci è stato spiegato, la struttura dei vaccini di nuova generazione si basa su un automatismo relazionale che trasmette informazioni per solleticare la produzione delle proteine che via via sono utili per fronteggiare l’infezione molecolare. Questo meccanismo si adatta in base alla sua reazione alle varianti – quelle che intervengono nell’evoluzione del virus – e riesce a fronteggiare nuovi assetti virali che i ricercatori del vaccino neanche avevano previsto. Dunque la fase di produzione di un dispositivo così sofisticato e instabile diventa anche il momento in cui il vaccino si aggiorna e viene in qualche modo riprogrammato.
Avere piena consapevolezza di questo processo, controllandone appunto le fasi di prototipazione e produzione, diventa essenziale per assicurare la pertinenza del vaccino alle varianti territoriali che rendono il virus diverso da paese a paese e talvolta da regione a regione. Come non funzionava il socialismo in un solo paese, così non funziona un vaccino realizzato da un solo proprietario.