Già la sentimmo arrivare nell’autunno scorso…mentre si ridefinivano le modalità della circolazione delle merci e degli uomini sotto l’incalzare della pandemia. Una grande frenata, un rallentamento che tocca non solo le vite dei singoli, ma gli stessi processi della globalizzazione. Il meccanismo si inceppa, alcuni suoi gangli non sono più così facilmente raggiungibili e funzionali, la megamacchina planetaria dello spostamento e della distribuzione dei prodotti perde colpi, stenta e si vede obbligata a riorganizzarsi. Il termine tecnico è: deglobalizzazione. Qualche economista afferma che la situazione venutasi a creare mette in crisi alcuni dei capisaldi del funzionamento della rete delle forniture come si era andata configurando negli ultimi decenni, e sostiene che la riscoperta fragilità delle catene mondiali di circolazione delle merci potrebbe preludere allo schiudersi di un’epoca segnata dal riemergere di localismi e regionalismi. Non che l’idea sia nuova, è affiorata più volte in passato, facendo capolino già durante gli anni ruggenti della unificazione economica mondiale, sul finire degli anni Novanta. In sostanza i sostenitori della deglobalizzazione ritenevano che la velocità espansiva che aveva caratterizzato il processo di integrazione planetaria fosse destinata prima o poi a ridursi, lasciando il posto a una fase di contrazione. A sostegno di questa ipotesi si citavano teorie complicate, si mostravano grafici pretesamente eloquenti, si invocavano limiti malthusiani, e si insisteva sulla componente “entropica” di ogni processo “dissipativo”. In realtà però lo spauracchio della deglobalizzazione, pur ciclicamente agitato, appartiene a uno scenario che non si è poi mai concretizzato.
Anche da parte di un ambito genericamente ecologista non erano mancate fascinazioni in questo senso: quale migliore occasione, infatti, per introdurre elementi della auspicata decrescita di una involuzione o di un blocco anche solo temporaneo della planetarizzazione dell’economia? Eppure, con buona pace dei degrowthers, tutto sembrava continuare ad accelerare, e persino la crisi del 2008, pur facendo segnare intoppi e ridimensionando il peso di alcune realtà, in particolare nei paesi emergenti, non aveva però introdotto soluzioni di continuità significative nel processo. Anche perché le componenti fondamentali della globalizzazione, quali tecnologie, comunicazione, forza lavoro a basso costo e delocalizzata, continuavano non solo ad essere presenti, ma anche a offrire continue innovazioni e nuove opportunità di concretizzazione. Insomma le specificità stesse della grande trasformazione, i fattori che la avevano inizialmente alimentata, e che continuavano a fornirle propellente, parevano mettere la globalizzazione almeno per il momento al riparo da rallentamenti, interruzioni o sospensioni. La società postglobale vagheggiata da alcuni studiosi, in cui sarebbero emerse aree omogenee geograficamente individuate, “blocchi” in grado di puntare alla autosufficienza e di ridurre la interdipendenza reciproca, rimaneva tutto sommato di là da venire.
Le regole del gioco sono però bruscamente cambiate durante la pandemia, e sono mutati alcuni rapporti di forza. È evidente che la Cina ha saputo meglio e più tempestivamente riadattare la sua macchina produttiva e distributiva alle mutate condizioni, rafforzando di fatto la sua posizione internazionale. Al tempo stesso sono diventate evidenti le fragilità della catena globale delle merci, mentre la Cina ha migliorato e resa più agile la sua struttura di smistamento delle forniture, offrendo a molte imprese prodotti che erano diventati difficili da procurarsi, e incrementando così il suo export. C’è dunque in corso una sorta di larvato raddoppiamento della catena delle merci, in cui alcuni imprenditori, soprattutto nei paesi emergenti, cominciano a scegliere di affidarsi alla filiera cinese. L’incertezza è grande, ma comincia a profilarsi una rottura rispetto alla globalizzazione come l’abbiamo conosciuta nell’ultimo trentennio, destinata ad avere effetti rilevanti anche sullo scacchiere geopolitico. La deglobalizzazione potrebbe infatti anche assumere la forma di circuiti delle merci differenziati e concorrenziali.
Le conseguenze per ora non si possono che intravedere: a rischio sembrano essere investimenti esteri molto cospicui, ma si prospetta anche l’indebolimento di alcune monete, con l’innescarsi di fenomeni di instabilità economica e rilevanti trasformazioni politiche, tanto più marcate nei paesi arretrati, alcuni dei quali potrebbero uscire estremamente indeboliti dalla fase post-pandemica, mentre altri potrebbero addirittura rafforzarsi in virtù di una struttura demografica particolarmente favorevole. E in ogni caso per evitare guai più grossi bisognerebbe pensare per tempo a strategie di sostegno, mirate non solo a determinati paesi ma anche a determinate regioni, a specifici settori in difficoltà. Il pericolo è che nelle condizioni che si stanno generando si accentuino tendenze protezionistiche, nazionalismi e egoismi localistici, che contribuirebbero inevitabilmente a portare al collasso la globalizzazione come la avevamo finora intesa, e finirebbero per generare conflitti, non solo economici…
Si tratta naturalmente solo di ipotesi. Certo è che in ogni caso le precedenti modalità di circolazione e valorizzazione delle merci non verranno cancellate nel giro di una notte, e che nel frattempo si profila già una ricostruzione dei nessi portanti di un nuovo sistema mondiale integrato. Nel tempo intermedio in cui ci troviamo a vivere possiamo solo prendere atto di un possibile passaggio storico, di una biforcazione del presente verso una direzione che non è ancora possibile cogliere. Chissà che non avessero ragione i vecchi saggi: agli antipodi il sole sorge quando da noi tramonta…