Riformare il sistema in senso progressivo, questo il vulnus inferto dal programma di Mario Draghi in veste di nuovo premier. Una conclusione talmente ovvia che in questo anno di pandemia quasi tutte le élite europee lo hanno capito: se non si fanno politiche di sostegno alla domanda, ogni azione per riattivare il meccanismo produttivo sarà inutile o tutt’al più porterà a risultati ai limiti della stagnazione, soprattutto nel Sud Europa. E uno che si è inventato il bazooka anti-spread lo sa meglio di chiunque altro: o metti in campo politiche fiscali che accompagnino quelle monetarie o dal pantano non si esce. “Repubblicano”, “socialista liberale”, dopo il suo discorso nell’aula del Senato sono molte le etichette che gli sono state attribuite, eppure basterebbe ricorrere a un aggettivo solo: keynesiano.
Il capitalismo straccione all’italiana, che ha fatto solo finanza e divisione di dividendi senza apportare innovazione, deve finire, servono politiche espansive della spesa e meccanismi più efficienti per riattivare il mercato e far tornare competitivo il paese. Una delle grandi vergogne dell’Italia, da qualche decennio a questa parte, sta nel fatto che l’elemento su cui compete con gli altri paesi è il costo del lavoro. Non potendo competere sulle produzioni, da anni il nostro asso nella manica, il nostro vestito buono con cui fare colpo sul mercato, è lo stipendio dei nostri lavoratori, pagati molto meno dei colleghi francesi, incredibilmente meno dei tedeschi. Pensiamo al settore dell’automobile, che nell’ultimo anno ha registrato un – 27%: la fusione di Fca e il debutto in Stellantis, dal punto di vista strategico era forse necessaria – ha sostenuto di recente Romano Prodi –, ma ormai il potere decisionale è totalmente in mano francese. Come cambiare lo stato attuale delle cose? Anche perché, se non si cambia ora, non si cambia più. Tanto più che – non ce ne siamo forse accorti – ma una virata a sinistra, talvolta anche simbolica, durante il governo precedente c’è stata: per esempio, dopo anni di contratti separati, il contratto dei metalmeccanici si è chiuso unitariamente, con un aumento sulla paga base. Segnali di una diversa “attenzione” sono stati evidenziati anche da cose come il “premio di efficienza” accordato ai lavoratori del gruppo Stellantis. Beninteso, è una questione di sostegno alla domanda, di potere di acquisto da preservare, non certo di buon cuore, però un operaio che lavora da inizio pandemia con potere di acquisto sta meglio di un operaio senza potere di acquisto nonostante lavori da inizio pandemia. Negarlo è da falce e cachemire. Mentre Carlo Bonomi digrigna i denti, chi le fabbriche le conosce e non si limita a rappresentarle sa quanto sacrificio è stato chiesto agli operai, e comprende che qualcosa del “maltolto” va restituito, altrimenti, parafrasando Henry Ford, “chi compra le macchine che produco se non i miei operai?”.
“Bisogna che il governo metta in campo una legislazione che impedisca che la competizione tra le imprese avvenga sui contratti pirata e sulla riduzione dei diritti delle persone. La precarietà è uno degli elementi che ha determinato l’aumento della povertà e delle diseguaglianze” ha detto il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, nel corso del convegno della Fisac-Cgil tenutosi il 18 febbraio. Inappuntabile. Ma non basta. Perché, se l’obiettivo è puntare sulla ricerca e l’innovazione, sulla cosiddetta industria 4.0 – e in tal senso il discorso di Draghi a Palazzo Madama è stato chiarissimo – si dovrà tagliare una miriade di posti di lavoro. È fisiologico, se rottami il vecchio per fare spazio al nuovo, la transizione non sarà indolore. Se decidi di puntare sulla produzione di macchine elettriche e non più sulle macchine tradizionali, avrai bisogno di un’occupazione che sarà sì e no la metà di quella attuale. Quindi, che fine farà tutto il pezzo di mondo che per una fase (almeno) sarà penalizzato dall’innovazione necessaria? Questo devono chiedersi parti sociali, politici e tecnici. Lo abbiamo finalmente capito, si deve modificare il modello produttivo italiano, ora o mai più, ma perché l’operazione non si trasformi in una macelleria sociale è necessario accompagnarlo con misure che difendano tutti quelli che perderanno il lavoro. E saranno tantissimi.
Immagine tratta dal film “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri (1971)