A più di una settimana dal voto del 7 febbraio, ancora non è chiara la situazione che si presenterà agli elettori nei prossimi mesi. Tuttora non si sa chi sarà lo sfidante di Andrés Arauz, che con la Unión por la Esperanza, coalizione di centrosinistra, ha ottenuto il 32,71% dei voti. A sfidarlo potrebbe essere Guillermo Lasso (leader del centrodestra che ha ottenuto il 19,74% dei voti), che però si gioca la partita con Yaku Pérez (a capo del Movimiento de Unidad Plurinacional Pachakutik, espressione di parte degli interessi della CONAIE, confederazione che raggruppa le forze legate alle comunità indigene, fermo al 19,38% dei voti). Aumenta la situazione d’incertezza generale, sia l’ipotesi di riconteggio dei voti sia quella di possibili accordi elettorali, e c’è l’incognita di alcuni documenti riservati provenienti dalla Colombia che l’esecutivo uscente dice di poter produrre a breve contro Arauz.
La Repubblica dell’Ecuador vive così un insieme di crisi sociale, economica e morale, che la allontana dal periodo di bonanza 2007-2017, anni in cui il prezzo del petrolio era favorevole al Paese, esportatore di greggio “dollarizzato”, essendo il dollaro la moneta ufficiale adottata fin dai primi anni Duemila. È opportuno dunque offrire qualche dato in più su quella decade, che costituisce l’antefatto imprescindibile per comprendere l’attualità.
In quegli anni il Paese fu guidato da Rafael Correa, classe 1953, economista a capo del partito legato al Movimiento Revolución Ciudadana, schieramento di sinistra d’ispirazione bolivariana che uscì vincente dalle urne a fine 2006 e governò stabilmente durante tutto il periodo, ottenendo un secondo mandato concluso nel 2017. Per molti osservatori fu proprio il boom economico registrato sotto Correa a fare da volano alla radicale trasformazione che investì l’Ecuador durante quel decennio.
Il carismatico leader, che presto si attirò grandi simpatie e odi altrettanto profondi, attuò una modernizzazione e una forte ristrutturazione della vita pubblica: dall’educazione alla sanità fino alle infrastrutture, passando dalla digitalizzazione alla riorganizzazione della burocrazia e del sistema fiscale, al rilancio del turismo. Il tutto accompagnato da un’esaltazione della sua immagine organizzata dalle campagne di comunicazione.
Ai risultati positivi fatti segnare dagli indicatori economici, si aggiunse anche l’attacco feroce verso gli interessi secolari dei settori conservatori. Questo, unito all’acuirsi di un certo dirigismo di cui fu vittima anche l’associazionismo delle forze indigene, furono elementi fortemente criticati dalle forze di opposizione, che li vide come un vero e proprio attacco alla democrazia. Il leader, dall’eloquio al tempo stesso semplice e competente, istrionico e diretto, sicuramente aggressivo, polarizzò infatti sulla sua persona tutta l’attenzione del discorso politico, dividendo la pubblica opinione anche all’interno della galassia delle anime progressiste e di sinistra.
Alla fine dei suoi due mandati, il popolo elesse nel 2017 l’attuale presidente della Repubblica Lenin Moreno, già vicepresidente nei governi di Revolución Ciudadana. Moreno si presentò al voto come il prosecutore delle politiche di riforma iniziate in precedenza, incaricandosi però allo stesso tempo di portare unità – sotto il motto el gobierno de todos – con un cambio di comunicazione e di governance. I tempi però erano mutati: la discesa costante del prezzo del petrolio, iniziata già nel 2015, e l’aumento relativo del debito pubblico, modificarono le condizioni e il presidente rapidamente cambiò politica.
In poco tempo, da uomo del “cerchio magico” di Correa, diventò il più acerrimo nemico dell’ex presidente e di tutto il movimento in cui aveva militato. Dopo le celebrazioni per l’elezione e un’iniziale fase attendista, dall’estate del 2017, Moreno iniziò una campagna politica e mediatica contro l’esecutivo precedente, di cui pure aveva fatto parte. Rivelazioni sul debito nascosto dietro l’apparente prosperità, supposti sprechi per gigantesche e inutili opere pubbliche, e accuse di corruzione verso l’ex presidente e verso uomini dell’apparato statale di ogni ordine e grado a lui legati, rimbombarono attraverso tutti i media.
Gli anni del mandato di Moreno, vissuti in aperta opposizione verso il recente passato correista, portarono anche a un riassetto della politica internazionale ecuadoriana. Questo si concretizzò in una più stretta alleanza con gli Stati Uniti (rafforzata dalla fine della protezione nei confronti di Julian Assange, fondatore di WikiLeaks) e a un raffreddamento delle relazioni con la Cina e la Russia. Da non dimenticare anche una totale opposizione verso il Venezuela, spauracchio socialista per tutto il Sudamerica. Mai dichiarata apertamente, la saldatura morenista con le forze conservatrici rappresentate da Guillermo Lasso, che aveva sfidato alle elezioni in un tempo che sembra lontanissimo, è oramai un fatto rimarcato anche dalle riforme-ricetta di stampo liberista del Fondo Monetario Internazionale, che il presidente uscente ha fatto passare o cercato di far passare durante il suo mandato.
L’ex presidente Correa, accusato di corruzione, vive oggi in Belgio, in una condizione che alcuni definiscono d’esiliato politico e altri di fuggiasco. Tuttavia la sua figura continua ad avere grande peso nell’attuale politica ecuadoriana. Egli, impossibilitato a ricandidarsi, è infatti alle spalle – anche fisicamente, in molti manifesti elettorali – di Arauz, economista di 35 anni, già ministro in alcuni esecutivi dei governi di Revolución Ciudadana. Il candidato – sebbene critico su alcuni aspetti del correismo, come per esempio la politica verso le comunità indigene – si propone di ridare forza alle basi politiche e culturali di quello che considera un movimento che portò grandi trasformazioni e progresso.
In opposizione a questo revival, tutti gli altri numerosi candidati alle ultime elezioni si sono schierati su posizioni convintamente anticorreiste, sia da destra sia da sinistra, paventando la “venezualizzazione” dell’Ecuador. In qualche modo sorprende che, nella campagna elettorale che prosegue incalzante, sia questo il tema principale di tutto il dibattito politico ecuadoriano. Esso infatti rimane in primo piano, mentre le due profonde crisi che segnano il Paese – quella della pandemia di Covid-19 e quella legata agli strascichi delle divisioni sociali riaperte con il grande sciopero generale dell’ottobre del 2019 – rimangono in secondo piano.
Proprio l’apparente inconciliabile divisione ideologica tra il banchiere conservatore Guillermo Lasso e il capo del movimento indigenista Yaku Pérez (personaggio appoggiato dai direttivi provinciali ma non dall’intera base CONAIE) si stava coagulando in un possibile accordo elettorale contro le forze arauziane del neo-correismo, accordo che forse oggi appare sfumato. Mentre lo scontro politico è ancora tra favorevoli e contrari al recente e controverso passato, chiunque avrà l’onore e l’onere di essere a capo dell’esecutivo dovrà affrontare i problemi contingenti della povertà crescente dovuta alla perdita di posti di lavoro.
L’Ecuador, infatti, attraverso l’esecutivo uscente scopertosi nel tempo neoliberista, sta subendo gli effetti di un provvedimento chiamato “Ley humanitaria”. Si tratta di una legge che, assieme ad alcuni provvedimenti di protezione legati per esempio all’affitto e alle utenze, ha inserito di colpo un’estrema flessibilità nei contratti di lavoro, polverizzando con il pretesto dell’emergenza molti diritti dei lavoratori. Una ley, insomma, davvero poco humanitaria: un insieme di norme, in teoria transitorie, che hanno permesso a molte entità pubbliche e private di riorganizzare gli organici, abbassando gli stipendi e licenziando centinaia di migliaia di lavoratori (soprattutto tra i più qualificati).
Ora il Paese dovrà lottare per non soccombere agli appetiti delle multinazionali dell’estrazione mineraria e petrolifera, nonché per salvaguardare l’immenso e incredibilmente ricco patrimonio ecologico che possiede. Il nuovo governo dovrà inoltre lottare contro le scelte miranti ad aumentare l’indebitamento verso l’estero, che, secondo i dati di ottobre 2020, è arrivato al 59,89% del Pil. (continua)