Dieci anni fa, l’11 febbraio 2011, cadeva Hosni Mubarak nel clima impropriamente detto – a voler considerare i drammatici e sanguinosi sviluppi successivi – delle “primavere arabe”. Il suo era un potere imbalsamato che durava da trent’anni, dal momento cioè dell’omicidio di Sadat per mano di estremisti islamici nel 1981: un potere basato sul ruolo decisivo (anche nell’ambito delle attività economiche) delle forze armate, su uno stato di emergenza prorogato per tre decenni, e sulla corruzione caratterizzante in generale i regimi derivanti dal nazionalismo arabo. A tutto ciò, un impetuoso e variegato movimento di massa, autoconvocato mediante gli attuali mezzi di comunicazione, si oppose con coraggio (memorabile la lunga occupazione della piazza Tahrir al Cairo) riuscendo a strappare un embrione di transizione democratica che si tradusse nelle elezioni presidenziali del 2012 vinte dai Fratelli musulmani con Mohamed Morsi, a cui seguì, nel 2013, il colpo di Stato del generale al-Sisi, invocato perfino da una parte dello stesso movimento del 2011, che non voleva saperne di una costituzione ispirata alla sharia come quella proposta da Morsi. Tutto si concluse, quindi, con la restaurazione di un potere oppressivo e criminale che negli anni ha continuato a martoriare migliaia di militanti e dissidenti (tra cui Giulio Regeni e, oggi, Patrick Zaki sono le vittime note in Italia).
Questa, in estrema sintesi, la vicenda che si può riassumere sotto il titolo di “rivoluzione egiziana”. Le donne, gli studenti, i giovani, i disoccupati, un’intera società in rivolta – e alla fine un completo nulla di fatto. Com’è potuto accadere? Cos’è diventata la “rivoluzione” oggi? In che cosa non si distingue da quelle rivolte che hanno lasciato le cose nello stesso modo in cui le hanno trovate, com’è accaduto infinite volte nel corso dei secoli?
Parlare di una “sconfitta” della rivoluzione sarebbe troppo semplice. Una rivoluzione sconfitta (come per esempio la Comune di Parigi del 1871 di cui ha scritto, nel suo articolo per terzogiornale, Riccardo De Gennaro) viene battuta dalle armi avversarie e termina di solito con un immediato massacro da parte dei vincitori. Un sommovimento del genere s’inserisce in una “storia” e lascia un deposito al fondo di se stesso spesso pronto a fermentare di nuovo nel giro di non molti anni, magari neppure nello stesso paese in cui si è consumato il primo tragico atto, come sta a dimostrare il nesso tra la Comune di Parigi e le due rivoluzioni russe del 1905 e del 1917. Così è stato anche per le rivoluzioni anticoloniali nella seconda metà del Novecento. Ci si ricorda della “guerra d’Algeria” contro la dominazione francese – ma chi si ricorda che in Algeria nel 1988 ci fu una rivolta detta “guerra della semola”?
È nella perdita di confine tra i termini di “rivolta” e di “rivoluzione” che si colloca il grande sommovimento egiziano. Esso non nasceva dal nulla, c’erano stati nella cosiddetta società civile fermenti e agitazioni precedenti al 2011 (e ciò era accaduto, del resto, anche in Tunisia che inaugurò la serie delle rivolte), ma nel complesso l’andamento di questa rivoluzione, che non soccombette a una controrivoluzione vera e propria, fu più simile a quello di una ribellione che finisce con l’avvitarsi su se stessa, e con lo spegnersi perché “giocata” dalle forze dominanti, anziché a quello di una rivoluzione che, pur sconfitta, riesce a sedimentarsi.
Una ragione di questo fallimento è da ricercare – non c’è dubbio – nella presenza capillare e diffusa nella società egiziana, specialmente nei centri minori e nelle campagne, di un’organizzazione islamista (neanche troppo moderata) come quella dei Fratelli musulmani, gli unici a costituire in Egitto, prima della repressione, un vero e proprio partito in grado di misurarsi in un agone elettorale. Il resto del movimento era formato da una varietà di gruppi e associazioni: e anche se furono questi a dare inizio alla rivolta, non seppero o non poterono guidarla perché troppo deboli e frammentati. Non riuscirono neppure a esprimere una candidatura unitaria nelle elezioni del 2013. Oggi una rivoluzione deve sapersi attrezzare sul piano della democrazia rappresentativa, dev’essere pronta a sostenere il confronto elettorale; non sarebbe più immaginabile proporre, nella forma di una pura e semplice democrazia diretta, un autogoverno “dal basso” sulla base di comitati cittadini (come fu per la Comune di Parigi). Il Cairo è una megalopoli di una decina di milioni di abitanti: impossibile immaginare, in questo informe agglomerato urbano, una gestione soltanto “per comitati”.
La seconda ragione è che, piaccia o non piaccia, l’islamismo non è solo una forza organizzata ma una forza riformatrice o rivoluzionaria. Si tratterà pure di una “rivoluzione conservatrice”, per tradurla nei termini occidentali, ma con essa, dalla rivoluzione iraniana del 1979 in poi, bisogna fare i conti. Se le forze laiche, liberali e socialiste, non prendono in considerazione o non riescono a realizzare un accordo con le forze politico-religiose, portatrici di una parte consistente delle istanze popolari, il moto di liberazione è destinato alla rovina. In Tunisia, dove le cose – unico Paese delle rivolte arabe – sono andate relativamente meglio, ciò è dipeso dalla non divaricazione che ci fu tra il partito islamico Ennahda e il resto delle forze politiche. Fu così possibile arrivare a un’assemblea rappresentativa democraticamente eletta e scrivere, nel 2014, una carta costituzionale condivisa. In Egitto, invece, la debolezza organizzativa delle forze laiche impedì qualsiasi forma di dialogo – e mise capo a una brutale restaurazione che, nei primi tempi, poté addirittura presentarsi come una soluzione democratica.
Infine, è lo stesso sfondo su cui collocare la vicenda di questo ventunesimo secolo a imporre un ripensamento generale circa il nesso ognora instabile tra conservazione e progresso. Questo sfondo è dato da una forma di ibridazione culturale che non procede più, come nel Novecento, a senso unico: cioè in un rapporto tra i miti e la realtà della storia dell’Occidente e le tradizioni locali, a cui era riservato solamente il destino di imitare concezioni nate altrove, come nel caso della rivoluzione algerina che, nella lotta contro la dominazione coloniale, si trovò a mutuare gran parte dei presupposti ideologico-politici della metropoli francese. No, siamo oggi di fronte a una ricerca identitaria da parte dei Paesi cosiddetti terzi, che si esprime spesso in forme politico-religiose, e deve poter trovare la propria strada, una propria visione riformatrice o rivoluzionaria, per riuscire a spostare in avanti anche di poco le lancette dell’orologio della storia.