La crisi economica, sociale e ambientale – non quella del Covid – ma quella generata nel 2007/2008 che non si è mai effettivamente risolta nel cosiddetto Occidente sviluppato, riceverà un sostanziale contributo di denaro pubblico. Un Piano nazionale di ripresa e resilienza, adattamento nostrano delle disponibilità totali dell’Unione Europea previste nel Sure, nel sostegno per la gestione della crisi pandemica nell’ambito del MES, nel Fondo di garanzia della Banca europea per gli investimenti (BEI) per i lavoratori e le imprese (540 miliardi di euro) e nel Next Generation Eu (750 miliardi) a cui si aggiungono 1.100 miliardi previsti nel quadro finanziario pluriannuale.
In questa mole importante di fondi europei, il ruolo immaginato per l’agricoltura è non solo marginale ma – nei negoziati tra i governi – ha subito dei tagli. L’unica voce specifica, quella relativa ad interventi di sviluppo rurale, è passata da un’originale previsione di 15 miliardi (per l’UE) a 7,5 miliardi definitivamente accordati.
Alcuni hanno immaginato che l’Italia, primo paese agricolo dell’Unione per valore aggiunto della sua agricoltura avrebbe, se non altro per rispondere alle aspettative e agli appetiti del settore agricolo, operato una correzione inserendo un supporto maggiore in termini almeno di politiche pubbliche per il settore. Anche perché si continua a pretendere che la ripresa dovrà basarsi su un’aumentata sostenibilità ambientale.
“L’azione di rilancio del Paese delineata dal Piano è guidata da obiettivi di policy e interventi connessi ai tre assi strategici condivisi a livello europeo: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale” si legge nel Piano Nazionale di ripresa e resilienza. Considerando il peso che l’agricoltura ha sia come attore importante della crisi climatica che come possibile strumento per contribuire a “raffreddare la terra”, ricordando che la povertà nei comuni di piccola e media dimensione, quelli che hanno un tessuto rurale importante, ha tassi più alti della media nazionale, si poteva immaginare una qualche attenzione a questo comparto.
Nell’agricoltura italiana, secondo vecchi dati ISTAT (2015) lavorano circa 3,5 milioni di persone, di cui 2,5 sono manodopera familiare. Secondo dati più recenti (2020), il reddito agricolo è calato del 4,8% e la rilevazione delle ULA (Unità di lavoro: rappresentano una misura dell’occupazione con la quale le posizioni lavorative a tempo parziale – contratti di lavoro part-time e seconde attività – sono riportate in unità di lavoro a tempo pieno. Le unità di lavoro sono calcolate al netto della cassa integrazione guadagni) totale era (2019) di 1,262 milioni, di cui 814 mila “indipendenti” – cioè coltivatori diretti.
Le grandi aziende agricole che occupano più di 10 ULA, occupano solo il 2,7% degli addetti e producono il 5,4% della produzione, mentre le aziende fino a 10 ULA producono il restante 94,6%, di cui un 25,5% della produzione è prodotto da aziende con meno di 1 ULA, cioè le cosiddette “aziende che difficilmente possono essere classificate come imprese” , che – evidentemente – non sono di sussistenza e autoconsumo ma lavorano per il mercato essenzialmente locale e che tanto hanno contribuito all’approvvigionamento alimentare durante la crisi pandemica.
La stragrande maggioranza delle aziende agricole hanno piccole dimensioni, quindi hanno sicuramente bisogno di un sostegno. Le aziende che fatturano meno di 15.000 euro all’ anno occupano un terzo degli addetti, realizzano il 10% della produzione ma pagano il 23% dei contributi sociali a carico di conduttore e familiari.
Ci si può domandare se quello che è previsto nel Piano ha un qualche riferimento a questo spaccato della nostra agricoltura.
I soldi disponibili per i 3 progetti relativi all’agricoltura sostenibile (1,8 miliardi) saranno dedicati a:
“Contratti di filiera“: uno strumento che esiste dal 2003 e che di fatto integra la produzione agricola alle imprese di trasformazione e distribuzione. Sono uno strumento a vantaggio totale delle industrie a valle che già godono di uno smisurato potere di mercato, sono quelle più grandi (con oltre 250 addetti) essenzialmente concentrate in due sole regioni (Lombardia ed Emilia) e quelle della Grande distribuzione organizzata (GDO). Questa tipologia di contratti già gode di finanziamenti pubblici attraverso il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali. Internazionalmente sono definiti chiaramente come “contratti di coltivazione”, di fatto trasformano l’agricoltore in un operaio a domicilio;
“Parchi agrisolari: Incentivi per l’ammodernamento dei tetti degli immobili ad uso produttivo nel settore agricolo, zootecnico e agroindustriale (installazione pannelli solari, isolamento termico, sostituzione coperture in eternit, ecc.) per incrementare la sostenibilità e l’efficienza energetica del comparto, realizzando inoltre sistemi decentrati di produzione di energia.” In questo caso se le intenzioni sembrano positive quello che desta preoccupazione è la possibilità, offerta ad investitori che realizzano parchi agrisolari togliendo terra all’agricoltura, di vendere l’energia elettrica alle compagnie nazionali. Esperienza questa già consumata da oltre 10 anni in Sardegna e spesso finita davanti ai tribunali con condanne per truffa o, peggio, per attività a carattere criminale delle imprese che realizzavano gli impianti;
Il terzo progetto prevede interventi a supporto della “logistica per i settori agroalimentare, pesca e acquacoltura, forestale, florovivaistica“. Ancora risorse per il comparto industriale a cui l’intervento pubblico taglierà una serie di costi riducendo il peso della capitalizzazione privata delle imprese a valle. Ma la Politica agricola comunitaria già finanzia abbondantemente questo tipo di intervento attraverso il sostegno alle Organizzazioni di produttori (Una Organizzazione di Produttori è un’aggregazione di aziende agricole di produzione sotto forma di cooperativa o di associazione, che rispetta determinati requisiti per poter essere riconosciuta e finanziata dalla UE).
In tutto questo non c’è l’ombra di interventi che, facendo perno sulla struttura estremamente decentrata del sistema agricolo italiano, avrebbero potuto dare un contributo alla “resilienza” dei sistemi produttivi. La presenza di aziende agricole di piccola e media dimensione sparse su tutto il territorio nazionale, quindi capaci di garantire un sistema di approvvigionamento alimentare basato sul prodotto fresco e sulla trasformazione rapida, senza l’impatto di trasporti di lungo o lunghissimo raggio necessari alla “fabbricazione” di alimenti via via più artificalizzati è una risorsa totalmente ignorata, anzi contrastata nella sua resistenza creando artificialmente – grazie al denaro e alle politiche pubbliche – meccanismi di concorrenza sleale difficilmente superabili.
Un discorso a parte meriterebbe l’enfasi posta sulla digitalizzazione che in agricoltura assume valenze particolari che toccano anche la dematerializzazione della vita (informazioni digitalizzate delle risorse genetiche necessarie alle attività agricole, come sementi), ma sarà per la prossima volta.