“Salvezza nazionale”, non più “unità nazionale”. Nel lessico politico, oltre che nei contenuti, c’è stato un salto categoriale nel giro di pochi giorni. Lo hanno imposto il presidente Sergio Mattarella e Mario Draghi. Si va in effetti verso un governo accompagnato da una ennesima drammatizzazione emergenziale del caso italiano.
Questa volta le emergenze sono almeno tre, tutte gravissime: sanitaria (Covid e campagna vaccinale), economica come conseguenza della prima e quella sociale (i probabili milioni di disoccupati che si aggiungeranno agli attuali, quando finirà il blocco temporaneo dei licenziamenti). Poi ce n’è una quarta di cui sono protagonisti gli stessi Mattarella e Draghi, che pure non ne parlano: sono l’afasia e l’impotenza della politica tout court, oltre che del sistema istituzionale. I precedenti si possono trovare nel Comitato di liberazione nazionale e nel governo De Gasperi del 1945 con Togliatti ministro, nei governi del periodo 1976-1979 che si reggevano anche sul voto di astensione dei comunisti. Nel primo caso, eravamo in pieno dopoguerra e occorreva costruire la democrazia. Nel secondo, il nemico era il terrorismo che colpì addirittura Aldo Moro, mentre la bussola strategica era il “compromesso storico” tra Dc, Pci e Psi.
Primo quesito. La situazione attuale giustifica la definizione di “salvezza nazionale”? La pandemia ha davvero pochi precedenti nell’epoca moderna. Economie mondiali e società sono state scombinate d’improvviso. Le ripercussioni di tutto ciò dureranno anni, dicono gli esperti. Sarà difficile che tutto torni come prima. Anzi, si discute assai poco su come la pandemia comporti un ripensamento di fondo di welfare e diritti sia individuali sia collettivi. Questa pandemia è simile a un terremoto più un ciclone. Quindi, motiva il richiamo all’impegno unitario e straordinario almeno nell’approccio, non nelle soluzioni.
Secondo quesito. In questo quadro le differenze politiche si annullano con un colpo di spugna? Si possono trovare convergenze nelle emergenze, questo sì, ma è impossibile trovare unità sui modelli sociali su cui si lavora in prospettiva. Dalle crisi bisogna uscire con nuove idee e progetti. Europa politica e nuovo welfare diventano le discriminati di fondo. Perciò, convergenze sì, seppure con molto giudizio. Recovery plan e recovery fund sono inoltre piani legati a riforme di respiro europeo che possono essere il volano di una improrogabile modernizzazione italiana.
Venendo al governo e ai problemi delle prossime ore, la soluzione auspicabile sarebbe un Draghi che guida una maggioranza come quella che sorreggeva Conte allargata solo a Forza Italia. Sarebbero tollerabili pure le astensioni di Lega e Fratelli d’Italia (è sempre un bene la destra divisa e lavorare per dividerla). Quello che sarebbe difficile deglutire è un governo che veda insieme Pd, 5 Stelle e Lega nello stesso esecutivo. Il sacrificio sarebbe al limite del harakiri. Nella prima opzione, invece, sarebbe più agevole ricostruire l’alleanza tra Pd, 5 Stelle, Liberi e uguali, dandole una prospettiva (Giuseppe Conte si è candidato a esserne il garante), mentre Italia viva si impegnerebbe al centro con Forza Italia.
A rompere gli indugi e a decidere saranno, tuttavia, Mattarella e Draghi. Lo capiremo dalla lista dei ministri che verrà resa nota la prossima settimana. L’opinione di Bruxelles tuttavia conta. E moltissimo. Sovranisti e anti-euro al governo di Roma non sono graditi. A tutto c’è un limite.