In molti ritornano. Spaesati in una Italia che hanno lasciato da anni per studiare e lavorare all’estero.
Tornano per il Covid, sfuggendo le restrizioni ai movimenti, il lavoro perduto, le città universitarie svuotatesi. Una diaspora che di colpo si conclude, una imprevista forza centripeta che li richiama lì da dove erano partiti.
Qui hanno ancora case, famiglie che possono accoglierli e in cui trascorrere quarantene che diventano interminabili e atroci in stanzette da studenti di pochi metri quadri. Li si potrebbe chiamare Returniki, come venivano un tempo definiti gli esuli russi che, vinti dalla nostalgia, finivano per tornare in Unione sovietica.
Il rientro è difficile. Reti sociali da ritessere, contatti da riprendere, amicizie svanite. Dopo tanta indipendenza di nuovo le case dei genitori.
Sono stranieri in patria, cosmopoliti, abituati ai viaggi, agli aeroporti.
Nel loro isolamento si annusano, si intuiscono l’uno con l’altro da piccoli segni rivelatori: il capello decolorato, la scarpa con la zeppa, il cappotto di pelle nera. La parola inglese caduta per caso nel discorso o l’accento vagamente esotico. Parlano due, tre, quattro lingue fluentemente. Alcuni hanno studiato in università prestigiose dai nomi altisonanti, e hanno lavorato in centri di ricerca di eccellenza.
Altri hanno vissuto e lavorato in ambienti eterogenei, hanno accumulato una esperienza di modi di vita e di costumi diversi, che rende complessa se non impossibile la relazione con il mondo infantile e chiuso dei loro coetanei che non studiano e non lavorano, i neet, i rimasti a casa.
Misurano tutto lo scarto tra società diverse: l’arretratezza culturale di quella italiana si concretizza per loro quotidianamente nei termini usati, nelle immagini veicolate dai media, nel goffo rapporto con le tecnologie. Avvezzi alle discussioni sul gender e sull’uso al neutro dell’articolo e dei possessivi, guardano esterrefatti “Uomini e Donne” – anche se poi il paese in fondo li affascina ne riscoprono i lati positivi, il clima, la cucina, le modalità delle relazioni interpersonali, la soffocata ma persistente capacità creativa.
E sono molti, più di quanto non si pensi. Argomento di conversazione persino al bar: “È tornata la figlia del prof…. anche il figlio dei vicini che studiava in America… ci ha messo tre mesi a rientrare non c’erano voli. Pare che si fermerà qui”.
Rientrati pensando di ripartire a breve, trascorsa l’emergenza, si trovano a fare i conti con una emergenza che pare senza fine. Devono ripensarsi, riprogettarsi in un mondo con cui hanno da tempo perduto familiarità. Si smarriscono di fronte alle tortuosità burocratiche, non capiscono perché sia così difficile fare valere titoli ed esperienze, trovare casa e lavoro.
Chi saprà vederli? Chi saprà offrire loro delle opportunità? Chi saprà trovare delle linee di contatto tra i ritornati e i neet? C’è una finestra che si è aperta, in cui il rientro di parti importanti di una generazione emigrata potrebbe schiudere vantaggi per tutto il paese.
Ma dove sono le amministrazioni e i governi in grado di rendersene conto? La finestra non rimarrà aperta per sempre. In mancanza di prospettive alla prima opportunità molti di questi Returniki ripartiranno. Occorre ora dare possibilità, valorizzare queste forze, prima che questa finestra si richiuda. Ma è come se fossero invisibili non ne troviamo traccia nei media mainstream, non risultano menzionati né nelle agende politiche né nel Recovery Plan…
Altri scelgono, altri decidono per loro. Rischiamo di perderli di nuovo, e questa volta probabilmente per sempre.