“Un gesto vergognoso, un gesto arrogante. Oggi è stata calpestata la democrazia. Inaccettabile che tutto questo possa succedere all’interno dei confini europei. Di fatto questo non fa altro che confermare tutto quello che è stato detto sulla polizia croata. Evidentemente non ci hanno consentito di arrivare dove volevamo perché volevano nascondere qualcosa”, questo il commento dell’europarlamentare Pietro Bartolo dopo che la polizia croata ha fermato lui e i colleghi Brando Benifei, Pierfrancesco Majorino e Alessandra Moretti, in visita ispettiva al confine tra Croazia e Bosnia e respinti il 30 gennaio scorso nei pressi della foresta di Bojna dalla polizia croata. Gli europarlamentari sono stati accusati di avere voluto inscenare una “performance al confine dato che nelle stesse ore era stato notato anche uno spostamento di un gruppo di migranti verso il punto dove gli eurodeputati avrebbero voluto entrare in Bosnia”, e il ministro degli Interni croato Davor Božinović ha definito l’azione dei politici italiani una provocazione: “La delegazione italiana non si trovava lì in veste ufficiale e per noi tale comportamento rappresenta un altro tentativo di screditare l’operato della polizia croata intenta a vigilare sul rispetto delle leggi e del confine”.
In ritardo, ma ci siamo arrivati. O almeno abbiamo provato ad arrivarci in una terra da tempo al collasso per via di una rotta migratoria tutt’altro che “chiusa”, ma percorsa quotidianamente a piedi da uomini, donne e bambini che scappano per lo più dai conflitti in Medio Oriente, soprattutto siriani, afghani e iracheni. Prima che la pandemia paralizzasse la circolazione dei voli, la rotta balcanica era la via “preferita” anche da chi scappava dall’Africa ma aveva abbastanza disponibilità economica per evitare di passare dalla Libia: si arrivava in Tunisia, Algeria e Marocco, si prendeva un visto di 70 euro, si acquistava un volo per Istanbul, ci si trasferiva a Çeşme o a Smirne, e lì ci si univa agli altri, provenienti dal Medio Oriente. In Turchia accadeva (e accade ancora) questo: i più giovani e in salute, maggiorenni o minorenni, uomini o donne, non importa, si fermano qualche mese e lavorano come schiavi nelle fabbriche del tessile delle catene low cost, il tempo di racimolare qualche soldo per la traversata nei Balcani e magari mettere qualcosa da parte da utilizzare una volta giunti nell’agognata Europa. A inizio 2016 il governo turco aveva introdotto dei permessi speciali per permettere ai siriani di lavorare in un quadro di legalità, così da fermare lo sfruttamento e assicurare il diritto all’istruzione dei loro figli. A beneficiare delle norme furono poco più che diecimila, perché gli imprenditori turchi, riluttanti a concedere tutele contrattuali che implicherebbero garanzie come il salario minimo, fecero una dura opposizione, e, nonostante la promessa di trovare un compromesso e aumentare il numero di permessi lavorativi, prima la sostituzione dell’ex primo ministro Ahmet Davutoglu con Binali Yildirim, poi le repressioni di Erdoğan rispetto ai tentativi del paese di virare verso una reale democrazia, presero il sopravvento. La regolarizzazione del lavoro dei migranti passò sotto traccia.
Cosa succede nei Balcani, poi, è ancora tutta un’altra storia, spesso violenta, per mano della polizia, come denunciano testimoni, reporter, osservatori e Ong. Dopo gli europarlamentari italiani, a finire nel mirino giudiziario e mediatico è ora una giornalista italiana, Paola L., indagata dalle autorità della Bosnia-Erzegovina per aver partecipato al tentativo di far entrare illegalmente in Croazia 11 migranti afgani. Lo scrive l’agenzia croata HINA citando la polizia confinaria della Bosnia-Erzegovina. L’episodio si sarebbe svolto il 30 gennaio scorso, nella località di Bosanska. Tramite un comunicato la polizia ha così ricostruito l’accaduto: “La giornalista ci aveva chiesto di lasciar passare un gruppo di migranti oltre confine per far vedere agli europarlamentari italiani come la polizia croata si comportava nei loro confronti. Noi abbiamo detto no. Però la reporter evidentemente non aveva rinunciato al suo proposito e alcune ore dopo gli agenti l’hanno sorpresa al confine con un gruppo di undici migranti. Per lei si prospettano provvedimenti, forse anche di ordine penale”. Giova ricordare che la sia la Croazia che la Bosnia hanno ricevuto 60 milioni di euro per fornire ausilio e soccorso a quei disperati che ora respinge.
Intanto il presidente della regione Friuli-Venezia-Giulia Federico Fedriga ha annunciato nell’ultimo Consiglio l’intenzione di riprendere la pratica dei respingimenti nella vicina Slovenia. Una procedura – dice Fedriga – che “rispetta pienamente sia i principi della Costituzione italiana che quelli del diritto internazionale”. Con lo scoppio della pandemia, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha inviato in Friuli Venezia Giulia un contingente aggiuntivo di militari destinato ad affiancare le forze di polizia anche nelle operazioni di vigilanza della fascia confinaria. Solo a settembre 2020 erano presenti 180 militari a Trieste, 100 a Gorizia (di cui 50 impegnati nella vigilanza del Cara di Gradisca di Isonzo) e 95 a Udine. Quanto al rischio sanitario portato dai migranti, sui 2.594 tamponi registrati a settembre 2020, la percentuale di positivi è stata solo del 2,5%. Cacciati, perquisiti, picchiati, torturati, segnati come animali da bestiame, strumentalizzati dalle propagande, i migranti sembrano essere risparmiati dal Coronavirus. Forse perché mancano le occasioni di contatto. Nessuno si avvicina a loro, li tocca o li abbraccia. Uomini e no.