Un argomento è oggi al centro del dibattito politico negli Stati Uniti e da esso dipende la possibilità, per la nuova amministrazione democratica, di realizzare il proprio ambizioso programma di riforme, al di là dei primi ordini esecutivi (sempre temporanei e revocabili) del presidente Biden: la questione dell’ostruzionismo.
Un’assemblea parlamentare è un modo piuttosto rozzo per decidere qualcosa: non vince chi ha i migliori argomenti, ma chi ha più voti, cioè chi è più forte. Questa regola può portare (e storicamente ha portato) alla tirannia della maggioranza, che può così schiacciare a piacimento la minoranza. I sistemi parlamentari e le costituzioni hanno elaborato varie norme per impedire che questo avvenga consentendo alla minoranza di esprimersi, di dibattere e quantomeno di imporre un ripensamento alla maggioranza. Tra queste la più potente e risolutiva è l’ostruzionismo.
Nella Camera dei rappresentanti americana, come in quella dei Comuni inglese su cui è modellata, non esiste l’ostruzionismo. In quelle assemblee le leggi possono essere approvate con un semplice voto su un testo, anche senza discussione e senza emendamenti, se così vuole la maggioranza. Ma nel Senato americano le cose non stanno così. Questo perché il senato non era concepito come un’assemblea di rappresentanti del popolo, ma degli Stati, con due seggi per ciascuno indipendentemente dalla popolazione (il Wyoming con seicentomila abitanti ha due senatori come la California che di abitanti ne ha quaranta milioni). All’inizio i suoi membri non venivano neppure eletti, ma nominati direttamente dai governatori. Poi, nel 1913, il Senato divenne elettivo e da seconda camera, politicamente meno importante, si trasformò in prima camera con poteri anche maggiori di quella dei rappresentanti perché, oltre alle proposte di legge, aveva in esclusiva la prerogativa di approvare tutte le nomine del Presidente, centinaia di membri del governo, migliaia di giudici federali e tutti i trattati internazionali.
A queste prerogative si aggiungeva quella dell’ostruzionismo: ogni senatore poteva parlare su qualunque provvedimento quanto e quante volte voleva, di fatto bloccandone non solo l’approvazione ma anche solo l’esame. In base al regolamento del Senato (Rule XXII) per porre fine all’ostruzionismo occorre una supermaggioranza di tre quinti, cioè 60 senatori, e per cambiare questa regola ne occorre una perfino maggiore – due terzi. Di fatto, poiché raramente è successo che il partito di maggioranza raggiungesse anche la soglia più bassa, la conseguenza è stata spesso il blocco di riforme cruciali (come quella dell’immigrazione o una decente legge elettorale) che da decenni attendono di essere approvate.
Il sistema ha funzionato, bene o male, finché in Senato è prevalsa una regola non scritta di moderazione nel ricorso all’ostruzionismo, con il che si riconosceva il diritto della maggioranza di decidere purché fosse preservata una qualche misura di discussione e di compromesso. Ma a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, la polarizzazione politica è aumentata e con essa l’indisponibilità ad accettare decisioni prese dal partito avverso, e il ricorso all’ostruzionismo da parte di entrambi i partiti è diventato sempre più frequente e paralizzante.
È a questo punto che entra in campo “l’opzione nucleare”: gli esperti di diritto parlamentare scoprirono che, sì, per porre fine all’ostruzionismo ci volevano sessanta senatori, ma per cancellare la regola bastava una decisione del presidente del Senato (cioè il vicepresidente degli Stati Uniti), che poteva essere approvata con la maggioranza semplice di cinquanta senatori più uno. La “scoperta” avvenne durante la presidenza di George W. Bush, ma fu soltanto minacciata e non messa alla prova dal vicepresidente di allora, Dick Cheney.
Il primo a mettere in atto l’opzione nucleare, limitatamente alle nomine presidenziali che i repubblicani avevano deciso di bloccare a tappeto, fu Barack Obama nel 2013. All’epoca il capo dell’opposizione repubblicana, Mitch McConnell, minacciò i democratici: “Voi adesso cancellate l’ostruzionismo, ma molto presto dovrete pentirvene perché la vostra decisione vi si ritorcerà contro” – disse. E così è avvenuto: quando i repubblicani hanno riconquistato la presidenza con Donald Trump, i democratici, ora in minoranza al Senato ma ormai privi dell’arma dell’ostruzionismo, sono stati costretti a ingoiare tutte le sue nomine, comprese le più squalificate e clientelari, oltre a tre giudici della Corte suprema (nominati a vita!) dichiaratamente di destra. Oggi, a parti invertite, i democratici potranno fare approvare senza opposizione le loro nomine, ma non i provvedimenti legislativi perché l’ostruzionismo in questo caso non è stato abolito.
E così si ritorna a parlare di “nuclear option”. Non per niente il capogruppo McConnell (sempre lui) ha intimato ai democratici che, se vogliono un minimo di collaborazione da parte dei repubblicani, devono promettere formalmente di non farvi ricorso. Il capo della maggioranza Chuck Schumer ha risposto che non se ne parla neppure e che non intende lasciare il programma di riforme del presidente Biden in balia dell’opposizione repubblicana. Così la battaglia si è di nuovo infiammata e non si vede come, quando e chi potrà vincerla.