Il lungo braccio di ferro sul Recovery Plan non era sul Recovery Plan, o Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Quanto meno non solo. Due mesi di scontro politico all’interno della maggioranza di governo non possono essere spiegati unicamente con le divergenze sugli indirizzi da dare ai fondi europei per la ripresa post-Covid e sulla struttura per gestirli.
La sorprendente impuntatura finale del piccolo ma molto visibile partito di Matteo Renzi, con le dimissioni delle ministre giunte dopo una corposa revisione del Piano e le aperture del presidente del Consiglio su un dossier delicatissimo anche per il Quirinale come la delega sui servizi segreti (poi attribuita a un diplomatico di grande esperienza), è solo una delle spie di questa contraddizione. L’esito ancora possibile della crisi, ovvero un clamoroso riequilibrio di forze a favore di un partito quotato attorno al 2 per cento nei sondaggi, e l’eliminazione o la radicale modifica di ministri e provvedimenti legislativi (come Reddito di cittadinanza e riforma della prescrizione) dal forte valore simbolico per quello che ancora è il partito di maggioranza relativa in Parlamento, potrebbe nelle prossime ore aiutare a rendere più comprensibile quanto è accaduto.
Interessante la lettura del numero due del Pd, fatta propria poi anche da altre voci nell’area bersaniana e in quella di Sinistra italiana: non vorrei, ha detto in sostanza Andrea Orlando, che l’obiettivo della crisi fosse “smontare” quell’embrione di possibile alleanza elettorale Pd-M5S-LeU, unica traccia, per ora, per i democratici, di un assetto che consenta di ridimensionare il temuto “cappotto” delle destre alle prossime elezioni. Un altro aspetto, secondario ma che non dovrebbe essere sfuggito agli osservatori più attenti, nelle settimane in cui teneva banco l’atteso rimpasto di governo, è la frequenza quasi ossessiva con la quale le testate giornalistiche più importanti hanno ricordato per settimane ai loro lettori che fra i candidati alla sostituzione c’era la ministra Nunzia Catalfo.
Del tutto laterale rispetto al progetto del Pnrr, saldamente in mano alla triade dei ministri Pd Gualtieri Amendola e Provenzano (e in parte al titolare M5S dello Sviluppo economico Patuanelli), la titolare del Lavoro non è stata tirata in ballo in episodi imbarazzanti come la ministra dei Trasporti De Micheli (caso Suarez-Juventus), non ha subìto le contestazioni della sua collega Azzolina sulle chiusure e le riaperture scolastiche, condivide al più con Inps e Regioni qualche responsabilità sui ritardi della cassa integrazione Covid. Ma l’apparentemente defilata ministra maneggia dossier che interessano a sindacati e imprese – quindi anche ai grandi e medi editori, oltre che naturalmente ai partiti di maggioranza – come la fine (davvero a marzo?) del blocco dei licenziamenti, la revisione appunto del Reddito di cittadinanza, il salario minimo, la riforma degli ammortizzatori sociali.
Se bastano questi temi per ora parzialmente in ombra ad alimentare tensioni continue, facile comprendere come la partita dei fondi europei susciti appetiti e preoccupazioni quasi insuperabili per la confusa coalizione figlia della crisi del Papeete. Il Pnrr attinge al Recovery and Resilience Facility (Rrf), la voce principale (672,5 miliardi) della risposta europea alla pandemia da Covid 19, ambiziosamente denominata Next Generation Eu.
Il Piano italiano, armonizzato al momento dell’ok in Consiglio dei ministri con altre fonti di finanziamento come React Eu per meglio comunicare la dimensione dell’intervento (contando anche i fondi del bilancio nazionale si parla di una programmazione pluriennale pari a 310,6 miliardi di euro), ammonta a circa 210 miliardi di euro, almeno 18 dei quali dovrebbero essere già disponibili per quest’anno: 10 di sovvenzioni e 8 di prestiti. Quelli “aggiuntivi”, secondo una lettura approfondita del Sole 24 ore, sono meno: 144 miliardi in tutto, un intervento di tutto rispetto se ricondotto a logiche unitarie e soprattutto se effettivamente quelle cifre verranno spese. Il Pnrr è peraltro accompagnato dalla promessa governativa delle immancabili “riforme” nei campi della concorrenza, della giustizia, del mercato del lavoro e del fisco.
Il documento approvato dal governo Conte indica tre assi strategici: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale; si articola in 6 Missioni, 16 Componenti funzionali, 48 Linee di intervento. Nella premessa, il Pnrr sottolinea il vincolo posto da Bruxelles sulla destinazione a interventi “green e digital” di una quota non inferiore rispettivamente al 37 per cento e al 20 per cento del totale degli stanziamenti del Rrf. Lo schema approvato in sede Ue, infatti, impone agli Stati membri di concentrarsi su sei aree di intervento: transizione verde (che include la protezione della biodiversità), trasformazione digitale, coesione economica e competitività, coesione sociale e territoriale, preparazione e reazione alle crisi da parte delle istituzioni, politiche per la prossima generazione, l’infanzia e giovani, (compresa l’istruzione e le competenze professionali). Trascritto nel Piano italiano: “1. Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura; 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3. Infrastrutture per una mobilità sostenibile; 4. Istruzione e ricerca; 5. Inclusione e coesione; 6. Salute”.
Non è possibile qui analizzare nel dettaglio le scelte illustrate in 169 pagine di testi e tabelle ma qualche flash può dare un’idea. Intanto la suddivisione dei fondi: 45,38 mld per la digitalizzazione; 66,59 mld per la rivoluzione verde e la transizione ecologica (qui suscita a prima vista qualche perplessità che l’intervento sul dissesto idrogeologico, priorità sempre invocata ad ogni evento naturale catastrofico, valga appena un ventesimo dello stanziamento, mentre 30 miliardi sono destinati all’efficientamento energetico e sismico dell’edilizia privata e pubblica, sacrosanto quanto gradito al vecchio partito del mattone); indicativo che sulle infrastrutture per la “mobilità sostenibile”, che impiegherà poco meno di 32 miliardi, ben 26,7 sono destinati all’alta velocità ferroviaria; seguono istruzione e ricerca (26,66 mld), inclusione e coesione (21,28 mld di cui 6 alle politiche attive per il lavoro, con il luogo comune del potenziamento dei Centri per l’impiego e della magica formazione per ridurre il cosiddetto mismatch fra domanda e offerta), e per finire i 18 miliardi destinati alla salute, più di metà dei quali, però, fanno riferimento alla digitalizzazione del settore, al potenziamento della ricerca e delle “reti informative sanitarie”.
Il punto forse più significativo del documento, però, è la prospettiva legata alle politiche di bilancio. Il dibattito internazionale nel 2020 si è largamente concentrato sulla necessità di una profonda revisione dei dogmi che hanno governato le politiche monetarie, fiscali e di investimento pubblico negli ultimi decenni. E tuttavia l’Italia, gravata come sappiamo da un maggior peso del debito pubblico, in assoluto e in rapporto alla sua attuale capacità di produrre ricchezza, è impegnata, dal Pnrr come da altri strumenti di programmazione, a tornare in leggero avanzo primario già dal 2023: cioè lo Stato, nonostante la catastrofe economica causata dal Covid 19, dovrà tornare a spendere meno di quel che incassa per purgarsi del “peccato” del debito, nonostante l’impegno della Bce (e in generale il pesante interventismo delle banche centrali di fronte alla crisi del 2020) abbia dimostrato che è possibile tenere sotto controllo a lungo l’andamento dei tassi e il temuto spread sui titoli pubblici.
“La prima lezione” che dovremmo imparare dalla reazione alla crisi del 2009, secondo Laurence Boone, capo economista dell’Ocse intervistata dal Financial Times, “è assicurarsi che i governi non vadano su politiche restrittive nei primi due anni successivi al minimo toccato dal Pil”. In Italia il dibattito invece è inchiodato sui moniti del commissario europeo Paolo Gentiloni (“non sto dicendo che bisogna tornare all’austerità, ma…”) e dell’ex premier Mario Monti, che non riesce a nascondere di non apprezzare particolarmente le “politiche monetarie ultra-accomodanti” della Bce in questa fase e mette in dubbio che la revisione strategica attuata da Christine Lagarde consenta di finanziare a lungo “a costo zero” il disavanzo italiano. “Probabilmente prima della fine di questa legislatura”, avverte, ma forse auspica, “verrà reintrodotta (dall’Ue, ndr) una disciplina di disavanzi e debiti pubblici”.
Insomma, la partita della crisi si è giocata su cosa fare dei fondi europei, ma sullo sfondo anche su cosa accadrà in un “dopo” non troppo lontano nel tempo. E su chi gestirà, facendola pagare a chi, l’eventuale riscossa dei vecchi schemi che la pandemia ha fatto saltare (rendendo anche piuttosto visibile il costo sociale delle politiche di austerità, ad esempio con le diverse capacità di reazione dei sistemi sanitari nei diversi Paesi Ue). Sono partite intrecciate che disegneranno non solo gli assetti sociali ed economico-produttivi dell’Italia ma lo stesso futuro dell’Unione europea.