Si può per favore dimenticare Livorno, lasciarsi per sempre alle spalle il lungo errore delle divisioni tra i socialismi, iniziato con la Prima guerra mondiale e la sua insensata carneficina, con la bruttura dei nazionalismi e del fascismo ma anche con una rivoluzione andata a male, finita oggi nel regime antidemocratico di Putin?
L’unico dirigente che avesse qualche sia pure debole ragione, nel 1921 a Livorno, era Giacinto Menotti Serrati, il quale fino all’ultimo cercò di preservare l’unità del partito (che sarebbe stata necessarissima in quel frangente già non più rivoluzionario), senza al tempo stesso disconoscere come alle masse italiane andasse pur data una risposta riguardo al vento nuovo che spirava dalla Russia. Gramsci apparve quasi fuori luogo nel teatro Goldoni: come si sa, non prese neppure la parola. Aveva oscillato al momento della guerra, sintonizzandosi tardivamente sulla posizione neutralista scelta dal partito. Era poi stato il sostenitore dei consigli di fabbrica torinesi, enfatizzandoli oltremisura e ricevendo per questo le reprimende dell’ultrasettario ed ex astensionista Bordiga che considerava quella enfatizzazione come un residuo di sindacalismo rivoluzionario. Eppure Gramsci si presentò alleato proprio con lui in quel congresso che, con la scissione, vide la nascita del partito di Bordiga, non di quello di Gramsci.
Seguono mesi tragici e sconcertanti. Un anno e mezzo dopo la scissione comunista, Serrati rompe infine con la corrente riformista di Turati, perché questi si è presentato dal re nel tentativo di formare in extremis un governo che impedisca la presa del potere da parte del fascismo. Per quanto riguarda i comunisti, essi neppure cercano di comprendere il movimento degli Arditi del popolo (che nell’agosto del 1922 avevano vittoriosamente difeso Parma dall’assalto delle squadre fasciste), negando loro un riconoscimento politico con il pretesto che le formazioni “militari” devono essere organizzate dal partito. E c’è anche il dissidio di Bordiga con l’Internazionale che, dopo la separazione dei riformisti dai massimalisti, chiede la riunificazione con questi.
In nessuna delle sue componenti il socialismo seppe essere all’altezza della posta in gioco. Si pensi soltanto a un particolare apparentemente secondario ma significativo: “l’Unità”, il giornale fondato da Gramsci nel 1924, prende un titolo che non si riferisce, come si potrebbe credere, all’unità dei lavoratori in generale, ma proprio a quella unificazione con i “terzini”, cioè con la componente massimalista (tra cui a quel punto lo stesso Serrati) che, a costo di staccarsi a sua volta dalla casa madre, vorrebbe la confluenza nella Terza Internazionale. Una testata, come si vede, nata già con un respiro politico piuttosto corto nel mezzo delle infinite beghe di bottega.
Alle elezioni del 1924 (con la famigerata legge Acerbo) le sinistre si presentano divise in tre liste e quattro componenti: la lista riformista, quella massimalista e quella dei comunisti con i “terzini” denominata di “Unità proletaria”, che per la cronaca non arriva neppure al 4% dei voti.
È vero che in seguito ci fu una riscossa nella Resistenza e nel decennio successivo alla guerra. Ma bisognò passare per l’emarginazione di Gramsci nel carcere fascista, per l’espulsione dal partito di Umberto Terracini al momento del patto Molotov-Ribbentrop, per l’unità d’azione tra comunisti e socialisti ma sotto il segno dello stalinismo… E ancora: ci furono la subalternità del Psi negli anni della collaborazione con la Dc fino alla completa autodistruzione craxiana, e una presenza dei comunisti sempre più chiaramente riformista, nei fatti, senza però una capacità di rinnovamento della cultura politica, con lo sbocco indecorosamente liberaldemocratico della Bolognina… Il resto è sconsolante storia presente.