I simboli, in politica come nella vita, contano molto. L’occupazione per alcune ore del Campidoglio di Washington peserà come un macigno non solo sulla storia degli Stati Uniti. Quello che non era ritenuto possibile è invece avvenuto. Il trumpismo ha varcato il Rubicone, mettendo sotto ulteriore stress il sistema politico ed economico non solo statunitense. I media di oltre Atlantico hanno parlato esplicitamente di “tentato colpo di Stato”. Il che la dice lunga su cosa abbiamo rischiato con la rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca.
Tornano in mente certi commenti a sinistra all’epoca della sconfitta di Hillary Clinton nel 2016. Si pensava che il ritorno dei repubblicani al comando avrebbe fatto dell’isolazionismo un valore evitando guerre e interventismi che né Bill Clinton né Barack Obama seppero evitare. Non si era compresa la portata devastante del “fenomeno Trump” che aveva conquistato la candidatura repubblicana fuori da ogni previsione e norma. Lo avremmo imparato via via. Meglio avere come avversari dei conservatori che degli eversivi, dovremmo aver appreso (eppure c’è chi ha storto ancora una volta la bocca per l’elezione del poco alternativo Joe Biden sostenendo che democratici e repubblicani pari sono).
Le destre non sono sempre uguali a sé stesse. Trump non è stato eguale a Ronald Reagan: lui ha unito il liberismo spinto alla rottura di ogni regola interna e internazionale. Non è stato solo una variante del populismo che si aggira nel mondo. E’ stato un fenomeno che si è inserito nella crisi economica e sociale della società a stelle e strisce, in quella del multilateralismo internazionale proponendo soluzioni autoritarie. In più, si è fondato sul rinascente razzismo (muro contro gli immigrati e i “diversi”) e sul via libera al popolo delle armi che cerca soluzioni di vita individuali.
Riascoltare i discorsi di Trump nella recente campagna elettorale fa un effetto agghiacciante. Prefiguravano Stati Uniti e il mondo a sua immagine e somiglianza. Una sorta di “fascismo moderno” si potrebbe dire, se il termine non fosse abusato e utilizzato a volte a sproposito (lo uso togliattianamente, alludendo a un regime fortemente autoritario ma con vasto consenso di massa). Non c’è infatti solo un forte tasso di populismo in Trump: c’è il disprezzo di ogni principio regolatore della vita collettiva. E’ questa la sua cifra distintiva.
Tuttavia, il problema centrale che ci lascia l’invasione del Campidoglio di Washington è che 70 milioni di statunitensi hanno votato per Trump e 78 milioni per Biden. Come hanno scritto i più esperti commentatori di cose americane: senza la pandemia Trump sarebbe stato quasi sicuramente rieletto. Questa è la questione su cui riflettere. Trump ha sperato fino all’ultimo che arrivasse il vaccino a salvarlo dall’onda che ha mobilitato al voto (anche postale) in extremis minoranze etniche e ceti intellettuali contro la gestione scellerata dell’epidemia di coronavirus. Ma i 70 milioni sono lì, all’estrema destra, ad attendere le mosse del loro capo: scissione del Partito repubblicano o altro ancora.
C’è infine il pericolo che il trumpismo non declini con Trump. Ci sono fior fiore di studi che descrivono la società civile americana ferita dalla lotta all’ultimo respiro tra garantiti e non, con l’abisso che divide sempre più le grandi città e metropoli dalla pancia profonda del Paese nella quale i tentativi di introdurre timide forme di welfare (la riforma sanitaria di Obama) non hanno attecchito.
Gli Stati Uniti del dopo Trump sono quindi divenuti assai diversi da quelli del “sogno americano” di kennediana o hollywoodiana memoria (consiglio per una disamina d’insieme il libro di Massimo Gaggi Crack America, edizioni Solferino).
A questo proposito, fanno un po’ sorridere quei commentatori italici che ostentano il lutto per la fine dell’intoccabile mito della democrazia americana, punto di riferimento sacrale dell’Occidente (la Stampa di Torino ha per esempio titolato dopo l’invasione del Campidoglio C’era una volta l’America citando il film di Sergio Leone).
Risorge piuttosto l’antica domanda sulle forme di compatibilità tra capitalismo e democrazia (la tendenza mondiale va in direzione opposta) su cui essere sempre all’erta. Del resto, alle spalle abbiamo anni in cui in molti si sono augurati l’americanizzazione – in gran parte avvenuta – della nostra vita politica (ruolo di leader, media, maggioritario, semplificazione partitica) e sociale (soggetti collettivi ridotti a consumatori o spettatori).
Il mito americano non esiste più da tempo. Il presidente Biden e la vicepresidente Kamala Harris dovranno sforzarsi di ricostruire innanzitutto le regole del gioco democratico, il che non è affatto poco.
Siccome gli Stati uniti precedono quasi sempre quello che avviene in Europa e in Italia negli ultimi decenni (dagli stili di vita all’economia, fino ai valori e all’immaginario), ci sarebbe da augurarsi che questa volta il vecchio continente andasse in direzione opposta per aiutare gli Stati Uniti a costruire l’alternativa al trumpismo e ai suoi surrogati. Ci vorrebbe l’Europa politica che ancora non c’è.