Ma perché gli israeliani sono guerrafondai?
Hannah Arendt sosteneva che gli ebrei, di solito poco interessati alla politica, non avessero compreso il pericolo che stavano correndo, spesso consegnandosi ai loro carnefici senza opporre resistenza. Per un fenomeno che potremmo definire di ipercorrezione, gli israeliani non solo si interessano alla politica, ma lo fanno soprattutto nel suo estremo prolungamento, cioè nella forma della guerra. Ciò che è sbalorditivo è che, messe da parte le remore circa la sorte dei loro ostaggi a Gaza, una stragrande maggioranza dei cittadini e delle cittadine di Israele, nonostante sappiano perfettamente chi sia Netanyahu, abbia appoggiato i recenti attacchi all’Iran.
L’ultima guerricciola, chiamiamola così, non solo ha dimostrato di non poter distruggere in maniera definitiva il programma nucleare iraniano, ma ha prodotto vittime e danni non da poco nelle stesse città israeliane. Rispetto alle scaramucce di alcuni mesi fa, gli iraniani hanno aggiustato il tiro. Resta la propaganda del governo di estrema destra, avviato sempre più verso una deriva teocratica, sostanzialmente speculare a quella del regime degli ayatollah. Ma alla maggioranza degli israeliani non sembra venire in mente che la politica internazionale non è soltanto la guerra, che esistono le vie della diplomazia e dei negoziati, e che andrebbe anzitutto risolto l’annoso problema palestinese, per poter vivere nel Paese se non proprio tranquilli (ci sarebbe sempre il rischio di attentati), almeno con una notevole riduzione delle tensioni.
Germania, una crescente frenesia militarista
“Dimmi dove sono finiti i fiori” (Sag mir wo die Blumen sind), cantava a Berlino la roca e inconfondibile voce di Marlene Dietrich, riprendendo volutamente in tedesco l’inno antimilitarista di Peter Seeger. Erano gli anni Sessanta, sembrava lontanissima l’idea di una qualunque forma di riarmo della Germania. Ancora negli anni Ottanta, i cortei della sinistra alternativa tedesca venivano aperti spesso da una struggente versione della canzone riadattata da Hannes Wader. Pacifismo e antimilitarismo sembravano radicati in maniera inestirpabile nel Paese. Chi si occupava di cose militari veniva trattato con una sorta di commiserazione, e i generali avevano scarso credito e limitato ascolto da parte della politica. Il servizio militare, pur essendo ancora obbligatorio fino al 2011 – anno in cui è stato definitivamente abolito –, aveva l’alternativa del servizio civile praticata da moltissimi.
La valutazione scolastica
Nel sistema scolastico tradizionale, la valutazione assume spesso il volto di un numero: un quattro che condanna, un sei che rassicura, un nove che lusinga. Ma cosa misura davvero quel numero? La conoscenza? L’impegno? O semplicemente la capacità di adattarsi a un modello preconfezionato, che troppo poco ha a che fare con le vite reali degli studenti? Molti giovani vivono realtà complesse: contesti familiari fragili, responsabilità precoci, disagi economici o psicologici che inevitabilmente condizionano il rendimento scolastico. Tuttavia, queste dimensioni vengono ignorate da una valutazione standardizzata, che guarda al risultato e raramente al percorso.
Chi comanda nella società digitale?
Le guerre in corso, in cui esperienze e tecniche della società civile stanno diventando forme dirette di combattimento, ci propongono due domande di fondo: chi comanda nella società digitale (che compare nel titolo del nostro convegno)? E anche: perché il digitale? Sono le chiavi per capire come la politica, nella sua versione più alta e radicale, possa affrontare il cambio di paradigma della portata e pervasività che abbiamo davanti agli occhi da almeno mezzo secolo. Cosa ha significato la sostituzione del fordismo con la smaterializzazione dei sistemi produttivi? Cosa ha permesso l’aggregazione di gran parte dell’umanità attorno a un unico linguaggio, il digitale, un unico strumento, il computer, un’unica potenza, il calcolo? Se non cogliamo le componenti di questa condivisione, e non ne liberiamo la mistificante unilateralità imposta dal dominio dei monopoli privati a Ovest e pubblici a Est, non afferreremo la coda del drago che da tempo sta emarginando la sinistra dalla scena sociale.


