Il ritorno di Draghi tra Macron e Micron
A volte ritornano, vecchia frase che in questo caso funziona. La candidatura di Draghi (non si sa se alla presidenza della Commissione europea o a quella del Consiglio dell’Unione) non soltanto ha i suoi sponsor – come Macron e il suo imitatore italiano Renzi, soprannominato appunto Micron –, ma adesso anche un discorso di investitura semiufficiale da parte del candidato stesso. Che cosa ha detto in fondo Draghi? Che l’Unione europea, così com’è, non va, e che ci vorrebbe un cambio di passo. Nulla di più lapalissiano. Solo che l’ex presidente del Consiglio italiano, che abbiamo imparato a conoscere come colui che si trovò a preparare il passaggio di testimone all’estrema destra (nient’altro fu il suo governo, se non l’ennesima incarnazione del moderatismo italiano), sarebbe la persona meno indicata per imprimere una svolta in un’Unione europea incapace di slancio.
In primo luogo, per quanto riguarda la politica economica (pur riconoscendogli i meriti che ebbe nella difesa della moneta unica nel periodo in cui fu a capo della Bce), l’ex allievo di Federico Caffè è in realtà uno Zelig (se ci si passa la leggera forzatura) pronto a indossare qualsiasi casacca. Non è lo stesso che preparò una lettera, insieme con Trichet, piena di indicazioni per il governo di allora – quello dell’immobilismo populista berlusconiano – nel senso di uno sfrenato liberismo? In generale, chi si rammenta del fatto che un tempo Draghi fece parte di una scuola keynesiana? In secondo luogo, una svolta europea in senso progressista implicherebbe l’impegno per arrivare a una trattativa nel conflitto tra la Russia e l’Ucraina: non un abbandono dell’Ucraina, ma il riconoscimento del fatto che, dopo due anni di distruttivo batti e ribatti, la situazione potrebbe avviarsi a soluzione solo con uno sforzo diplomatico. Purtroppo, però, sul tema è nota la posizione bellicista a oltranza di Draghi.
Scholz, Xi e il multipolarismo globale
Svoltosi in un contesto internazionale sempre più difficile, il viaggio di Olaf Scholz in Cina ha toccato diversi temi, tra cui gli attuali conflitti e i rapporti commerciali tra i due Stati. Era oltre un anno che il cancelliere non si recava in Cina, e lo scenario appare molto mutato da quando era giunto la prima volta, nel novembre 2022, per una visita durata solo poche ore, a causa delle rigide misure cinesi contro il coronavirus. Questa volta si è fermato per tre giorni: ha visitato Chongqing e Shanghai, oltre a Pechino, dove ha avuto un incontro di oltre tre ore con il capo dello Stato, Xi Jinping.
Cosa vuole davvero Netanyahu
Nel suo editoriale del 3 aprile su “terzogiornale”, Rino Genovese (vedi qui) osservava giustamente che, con l’attacco al consolato iraniano di Damasco di qualche giorno prima, Netanyahu mostrava di voler allargare il conflitto in corso, anziché circoscriverlo. Dopo la risposta di Teheran, cioè l’attacco missilistico su Israele (peraltro quasi del tutto sventato, e la cui unica vittima è stata, tra l’altro, una bambina araba), questa volontà di estendere la portata del conflitto è stata affermata esplicitamente: il ministro della difesa Gallant, al termine della riunione di lunedì 15 aprile, ha infatti dichiarato che “Israele non ha altra scelta che rispondere all’Iran”, cioè quello di muovergli guerra. Ma qual è il motivo che ha spinto Netanyahu e il suo governo a una escalation da cui tutti i governanti occidentali, da Biden a Giorgia Meloni, sembrano volerlo trattenere? I motivi sono sia di ordine interno sia internazionale.
A ottant’anni dalla “svolta di Salerno”
Il vecchio muore e il nuovo stenta a crescere. Antonio Gramsci aveva anticipato l’inesorabile contraddizione che stritola la sinistra. E che oggi ci porta a rileggere passaggi fondamentali della sua storia nella necessità di trovare indicazioni e soluzioni al dramma di una sua progressiva emarginazione. A ottant’anni dal discorso a Napoli, con cui Palmiro Togliatti avviò la strategica “svolta di Salerno”, inaugurando un dualismo fra le due città che, dopo la tragedia della guerra, ha visto numerose farse in casa Pd, si pone una nuova occasione per guardare alla storia senza rimanere prigionieri del passato.